Ex Ilva, parabola della fabbrica che ha avvelenato Taranto

Violenti scontri a Genova, nel quartiere Cornigliano, davanti ai cancelli dell’ex Ilva. I manifestanti il 4 dicembre 2025 hanno portato in piazza diversi macchinari e hanno divelto la cordata della polizia. A Taranto, il giorno dopo, gli operai hanno bloccato lo statale 100 e occupato lo stabilimento. Le richieste sono sempre le stesse: lavoro e sicurezza, dopo decenni di incertezze. Da quando nel 2012 l’acciaieria è stata sequestrata, la produzione è rallentata, fino quasi a fermarsi. Molteplici inchieste hanno portato alla luce le numerose sostanze cancerogene disperse nell’ambiente in decenni di attività dell’industria. Migliaia di persone nel tarantino si sono ammalate e sono morte dopo aver lavorato all’Ilva. Al momento il governo ha proposto un piano di decarbonizzazione che prevede un massiccio uso della cassa integrazione: inaccettabile per i sindacati. Il processo di vendita è in corso, si parla di acquirenti esteri. Inchieste, sequestri, mala gestione, nazionalizzazioni hanno costellato gli ultimi anni di un’azienda siderurgica che è partita come eccellenza italiana per poi diventare una fabbrica “fonte di malattia e morte”.

La nascita dell’Ilva e i primi anni

L’Ilva è nata nel 1905 a Genova, ma l’impianto di Taranto, al centro delle grandi trattative attuali, viene costruito solo nel 1965. Viene creata Finsider, holding pubblica che incorpora ILVA e altre acciaierie. Tra gli anni ‘70 e ‘80 però il settore siderurgico è entrato in forte crisi, e nel 1988 la Finsider, che era in grave perdita, è smantellata ed è creata una nuova società chiamata “Ilva S.p.A.”, controllata al 100% dall’IRI, quindi sotto controllo pubblico. La privatizzazione è arrivata nel 1995, con l’acquisizione da parte del Gruppo Riva.

Le prime inchieste e il sequestro del 2012

Fin dai primi anni di attività, l’Ilva ha esercitato un’influenza importante sull’ecosistema locale. Le emissioni di diossine, polveri sottili e altri agenti inquinanti legati ai processi industriali hanno contribuito a gravi problemi di inquinamento nell’area di Taranto. La prima grande inchiesta è partita dalla Procura della Repubblica di Taranto nel 2010, ed è stata denominata “Ambiente Svenduto”.

Nel 2012 la procura ha ordinato il sequestro dell’area a caldo dell’acciaieria, con accuse di “disastro ambientale” a causa delle emissioni inquinanti, e l’arresto di diversi dirigenti e proprietari dell’azienda, tra cui Emilio Riva. I giudici hanno parlato di fabbrica fonte «di malattia e morte». Poco dopo, in novembre, è stato emanato un decreto-legge per permettere la prosecuzione della produzione e per tentare di salvare i posti di lavoro, ma ormai il problema ambientale era sotto gli occhi di tutti.

L’impatto ambientale

In 50 anni di attività dell’Ilva sono stati dispersi nell’ambiente materiali cancerogeni come ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo. L’asbesto, più comunemente noto come amianto, inoltre è ancora presente negli stabilimenti. Negli ultimi 20 anni sono stati registrati 600 casi di mesotelioma in Italia. Di questi, il 40% soltanto a Taranto.

L’Osservatorio Nazionale Amianto ha rilevato, tra i lavoratori impiegati nelle fonderie ILVA, un aumento di casi di cancro del 400% rispetto alla media. Tra gli impiegati dello stabilimento, che sono stati esposti solo in modo indiretto, l’aumento è del 50%. Nella città di Taranto si è registrato un incremento del 500% di casi di cancro. Le forme più diffuse sono il mesotelioma, il tumore del polmone, della laringe, della faringe, ed altre patologie amianto correlate.

Il commissariamento del 2013

Nel 2013 si avvia quindi il processo di “commissariamento straordinario” dell’Ilva e viene avviata una gara internazionale per la riassegnazione della stessa. Naturalmente sono a rischio migliaia di posti di lavoro: nel 2012, 11.611 persone erano impiegate nelle acciaierie di Taranto.

L’era di ArcelorMittal

Il 1° novembre 2018 l’Ilva è entrata ufficialmente a far parte del colosso franco-lussemburghese ArcelorMittal, fondato dall’indiano Lakshmi Mittal, divenendo pertanto nota come ArcelorMittal Italia. Ma è durata poco. Il governo Gentiloni aveva in precedenza approvato uno scudo penale per proteggere l’acquirente dell’Ilva, dalle responsabilità penali legate all’inquinamento pregresso dello stabilimento. Lo scopo era permettere all’azienda di investire e ristrutturare l’Ilva senza il rischio di processi penali legati al passato. Pochi mesi dopo l’acquisizione, però, tale scudo è stato revocato dal nuovo governo Conte. Il tribunale di Taranto ha imposto scadenze molto stringenti per l’adeguamento ambientale, che, secondo ArcelorMittal, sono impossibili da rispettare. Per la società quindi il progetto non è sostenibile nelle nuove condizioni legali ed economiche, e ha deciso di rescindere il contratto. Con il rischio di perdere migliaia di posti di lavoro, è iniziata una lunga battaglia tra azienda, sindacati e governo.

Da Invitalia all’Amministrazione Straordinaria

Nel 2021 ha fatto il suo ingresso Invitalia, società pubblica che ha permesso allo Stato di ottenere una quota di controllo. Il gruppo è stato di conseguenza rinominato Acciaierie d’Italia S.p.A.

Nel febbraio 2024 l’azienda è entrata in Amministrazione Straordinaria. In questo modo, lo Stato ha ripreso il controllo dei siti. L’azienda intanto ha accumulato grandi debiti e il tribunale di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza di Acciaierie d’Italia (ADI).

La situazione attuale

Al momento a Taranto, l’altoforno n. 4 è l’unico operativo e stabile. Il n.2 è in fase di riavvio e il n.1 è sotto sequestro giudiziario dopo un incendio.  In questo modo lo stabilimento riesce a produrre, anche se su volumi molto inferiori rispetto al passato. L’azienda punta a produrre tra 3,6 e 4 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025.

Le difficoltà di Taranto influiscono anche sugli impianti di Genova. Molti semilavorati in Puglia vengono infatti mandati al Nord per essere raffinati: senza materia prima da Taranto, Genova non ha “grezzo” su cui lavorare. Quindi anche lì c’è una situazione di stallo: la produzione è fortemente rallentata, molti operai sono stati messi in cassa integrazione e le proteste sindacali sono sempre più frequenti.

Il piano del governo

Nel 2025 Stato, Regione e istituzioni locali hanno sancito un impegno verso la decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto: l’obiettivo è un piano strutturale che combini produzione, tutela ambientale e occupazione. L’obiettivo è rendere l’acciaieria di Taranto un polo di produzione all’avanguardia a basso impatto ecologico secondo le normative europee.

Il piano quadriennale del governo però prevede ristrutturazioni, riduzioni di personale e un uso intensivo degli strumenti di cassa integrazione (ben 6.000 entro il 1 gennaio 2026): per i sindacati e molti lavoratori, questo significa un rischio concreto di perdita massiccia di posti di lavoro.

Sia a Genova sia a Taranto la situazione è molto difficile. A novembre gli operai hanno occupato l’ex Ilva e invaso le strade. I blocchi del traffico sono frequenti anche e Genova. I sindacati chiedono il ritiro del piano governativo, considerato un “piano di chiusura” dagli operai, e garanzie sull’occupazione e il futuro della produzione.

Il processo di vendita è in pieno corso: le offerte sono state raccolte, ci sono alcuni candidati, come Bedrock e la cordata Flacks + Steel Business Europe. Le priorità restano sostenibilità, quindi decarbonizzazione, poi produzione e occupazione. Ma a queste condizioni, è molto difficile, motivo per cui alcuni investitori come Baku Steel e Jindal si sono ritirati.

La produzione siderurgica in Italia

Le difficolta dell’ex Ilva sono lo specchio di un settore sempre più in difficoltà. Pur essendo la seconda potenza siderurgica in Europa e la dodicesima nel mondo, l’Italia registra il peggior risultato storico, con 20 milioni di tonnellate di acciaio prodotte nel 2024. Secondo gli esperti nel 2025 il dato dovrebbe rimanere stabile, ma non è incoraggiante. La produzione non è sufficiente nemmeno a coprire il fabbisogno interno, soprattutto per ciò che riguarda gli acciai piani, come lamiere e lastre. L’Italia è così un’importatrice netta di questi prodotti, usati soprattutto nel settore automotive e delle costruzioni. Nel 2023, a fronte di un consumo interno pari a 15 milioni di tonnellate, il Paese ne ha importate oltre 11 milioni. Una crisi determinata anche dalle difficoltà dell’impianto di Taranto, storicamente il più importante produttore di acciai piani.

L’ex Ilva di Taranto
Le tecniche italiane

Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia ha sviluppato un importante knowhow nella produzione di acciaio secondario. Ottenuto partendo dai rottami di ferro, il forno elettrico costituisce un’alternativa importante rispetto all’acciaio primario, soprattutto dal punto di vista ecologico. L’industria siderurgica in Italia immette una minore quantità di CO2 per prodotto se paragonata alla media mondiale.
L’elevata specializzazione ha permesso anche di avere alti livelli di produttività del lavoro come riporta uno studio del 2023 di Cassa Deposito e Prestiti. Con 135,6 mila euro di valore aggiunto prodotto per addetto, l’Italia si posiziona davanti a Spagna (125,8 mila euro), Francia (125,6 mila euro) e Germania (101 mila euro). Nonostante un divario di produzione con quest’ultima di 14 milioni di tonnellate, nel 2023, la differenza di valore aggiunto dei prodotti è scesa al 30%.

La produzione mondiale

A livello mondiale, il settore è stato colpito da una consistente sovracapacità produttiva. I grandi complessi siderurgici asiatici contribuiscono a questo eccesso di capacità. Specialmente la Cina, primo produttore mondiale, rappresenta da sola il 55% della produzione globale di acciaio. I costi bassi e l’eccesso di offerta hanno causato un sottoutilizzo degli impianti europei e un calo della loro profittabilità. Inoltre la Cina ha continuato a intervistare nel siderurgico, aumentando la penetrazione dei prodotti cinesi e rendendoli più convenienti di quelli italiani.

Le sfide del settore

Le difficoltà per il settore siderurgico italiano, però, non si fermano alla competizione estera. L’elevato costo energetico rende poco competitive le aziende italiane: con bollette che sono raddoppiate rispetto al 2019, i margini di utili delle aziende si sono ridotti. A peggiorare la situazione si è anche creata una carenza di rottami ferrosi, che potrà solo peggiorare. Gli obiettivi di decarbonizzazione europei spingono la conversione di diversi impianti a ciclo integrale in forni elettrici, determinando una crescita ulteriore nella domanda di ferraglia. Per un Paese come l’Italia che è importatore netto, questo aumento potrebbe avere effetti negativi sul settore. Così come il rallentamento dell’economia tedesca. Nel 2023 la Germania assorbiva circa il 20% delle esportazioni metallurgiche, ma a queste bisogna anche aggiungere i prodotti già lavorati in Italia, usati nella componentistica. Si stima che la recessione tedesca abbia causato una riduzione del valore aggiunto della metallurgia italiana pari al 2,4%.

Ponte sullo stretto

Grandi opere pubbliche, come il ponte sullo stretto, non salveranno l’industria pesante italiana. L’Italia è già un netto importatore di acciaio e le necessità della grande opera pubblica non faranno altro che peggiorare la situazione. «Avremo bisogno di importare acciaio per costruire il Ponte, ammesso che si faccia. Il nostro tessuto industriale non è pronto per sostenere un’opera del genere» ha affermato Loris Scarpa, responsabile siderurgia Fiom Cgil, in un’intervista rilasciata a Il Manifesto.

Un equilibrio difficile

La questione dell’Ilva affronta il delicato equilibrio tra ambiente e lavoro. Da una parte è cruciale che l’area sia bonificata perché sia sicura per l’ambiente e per gli operai. Migliaia di persone sono morte per essere state esposte a sostanze cancerogene e questo non può essere ignorato. Ma operazioni così vaste necessitano un grande capitale che pochi finanziatori sono disposti a investire in una fabbrica che ha un passato così difficile. Soprattutto considerato che chi ci ha provato, co e ArcelorMittal, si è visto cambiare le carte in tavola pochi mesi dopo la firma dell’accordo e si è dovuto ritirare. D’altro canto c’è la tutela del lavoro: l’ex Ilva ha dato un impiego ad almeno 16 mila persone che adesso vedono il posto a rischio, minacciato sia per i lavori di bonifica, sia per il rallentamento della produzione, sia per una possibile chiusura definitiva.

Chiara Balzarini

Milanese, classe '98. Laureata in Psicologia Sociale , ho scoperto che il mio futuro è nel giornalismo. Appassionata di cavalli e sport equestri, oggi voglio raccontare il mondo in tutta la sua varietà e complessità.

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