Lui si chiama Stefano Nazzi e fa il giornalista da tanti anni. Se vi suona famigliare, questo è l’inizio del podcast, Indagini, con il quale si è fatto conoscere al pubblico italiano appassionato di true crime, ma non solo. Uno spazio in cui racconta storie italiane di cronaca, nera e giudiziaria, conosciute ai più o che potreste non aver mai sentito nominare. Da un così grande successo, sono nati libri, programmi televisivi e spettacoli teatrali. Nel suo ultimo testo, Predatori allarga il campo d’indagine, analizzando l’epoca d’oro dei serial killer in America tra gli anni ’70 e ’90. In occasione del reading tenuto all’Università IULM, lo abbiamo avvicinato e intervistato. Nazzi si è raccontato con sincerità, condividendo il suo approccio alla costruzione del racconto, le tecniche per adattare uno storytelling efficace ai diversi media e aprendo una riflessione trasversale su alcuni temi di attualità.
I suoi racconti sono sempre molto precisi e puntuali, con un ritmo pacato, che permette comunque di mantenere un grande dinamismo e un’attenzione molto alta da parte del pubblico. Ci sono dei modelli letterali, televisivi o cinematografici a cui si ispira?
I miei modelli di racconto true crime sono: A sangue freddo di Truman Capote, per me un maestro eccezionale, e i libri di Emmanuel Carrère. In queste narrazioni, si dà molta importanza al contesto e ai particolari. Io spiego molto, ma cerco sempre di mantenere alta l’attenzione. È come se la narrazione fosse divisa in comparti. In questo modo, chi ascolta riesce ad assimilare gli argomenti, trovando allo stesso tempo un gancio per non perdere la focalizzazione.
Essendosi confrontato con tutti i media, in primo luogo con il podcast, fino ad arrivare a televisione, editoria e teatro, quali differenze ha maggiormente riscontrato fra le varie forme?
Ci sono delle differenze: ad esempio, gli utenti della televisione generalista hanno più del doppio degli anni degli utenti del podcast. Quindi, probabilmente recepiscono di più certe informazioni rispetto ad altre. Per questo, la televisione è il media in cui ho riscontrato più difficoltà. Credo sia molto complicato mantenere un certo tipo di linguaggio. Gli utenti televisivi sono meno interessati a capire che cosa sia un incidente probatorio e più a conoscere i retroscena della vita sentimentale di un assassino.

Come è riuscito a mantenere il suo stile riconoscibile in tutti questi?
Ognuno di noi ha il suo personale linguaggio, lo sceglie e poi lo trasporta, qualsiasi sia il mezzo utilizzato. Credo che, in questo momento, il podcast sia lo strumento più moderno e più centrato per raccontare non soltanto storie di true crime, ma ogni genere di narrazione.
Quali sono le motivazioni che la spingono a raccontare una storia rispetto ad un’altra, qual è il filo conduttore che ricerca?
Cerco di raccontare le storie che, a mio avviso, possono essere rimesse in ordine. Magari storie già abbondantemente narrate, che, con il tempo, si sono riempite di fatti estranei e di sovrastrutture. Il filo che accomuna tutte le storie è questo: deve esserci un qualcosa che possa essere spiegato, eventualmente elementi nuovi, non raccontati ai tempi della storia stessa. Qualcosa su cui si può approfondire.
Il suo modo di raccontare è molto oggettivo e privo di tutti quei dettagli morbosi, di cui invece la cronaca odierna è intrisa. Come siamo messi oggi nel contesto mediale italiano, con la gestione della spettacolarizzazione e la pornografia del dolore?
Personalmente, non amo molto i termini “spettacolarizzazione” e “pornografia del dolore”. Si è imposto un modello narrativo simile a quello della soap: il fatto di cronaca viene raccontato a puntate, creando dei veri e propri personaggi. Nel racconto, per suscitare ogni giorno qualcosa di diverso, è necessario basarsi sull’emotività. Hemingway sosteneva che i fatti parlassero e suscitassero emozioni da soli. A volte, però, tali emozioni vengono forzate attraverso linguaggio, immagini, musiche. È proprio questo tipo di narrazione a trasformare anche un semplice fatto di cronaca in un racconto a puntate con dei protagonisti. Protagonisti che diventano anche personaggi televisivi.
Alcuni casi di cronaca nera, negli ultimi anni, hanno rivoluzionato la narrazione giornalistica dei delitti in Italia. Ad esempio, il delitto di Yara Gambirasio, avvenuto a Brembate di Sopra e quello di Sarah Scazzi, ad Avetrana. Questi casi hanno dato origine ad un nuovo fenomeno, quello del turismo macabro, che si è sviluppato recentemente nei luoghi dei più famosi delitti. Lei cosa ne pensa a riguardo?
La verità è che questo fenomeno c’è sempre stato. Per esempio, per quanto riguarda la casa a Montecchia di Crosara, in cui Pietro Maso uccise i genitori insieme ad alcuni amici, il nuovo proprietario ha dovuto chiedere un’ingiunzione al sindaco affinché il sabato e la domenica chiudesse la strada perché molta gente andava a fare fotografie proprio lì. Lo stesso è accaduto e accade ancora oggi a Cogne, la casa dove venne ucciso il piccolo Samuele. Ad Avetrana si è raggiunto il culmine. Infatti lì, il fine settimana, arrivavano i pullman da altre regioni. Il turismo dell’orrore va al di là delle mie capacità di comprensione. Lo stesso discorso vale anche per le numerose lettere d’amore che molti assassini ricevono in carcere. Succede anche alle donne, per esempio Erika de Nardo, condannata a Novi Ligure per aver ucciso la madre e il fratello, riceveva centinaia di lettere da ammiratori. Sono cose che vanno al di là della nostra comprensione.

Nel suo libro, parla del periodo buio dell’America, l’epoca d’oro dei serial killer. Cos’ha portato, a suo avviso, al declino dei serial killer nei giorni nostri?
Non è giusto dire che ci sono meno serial killer: potenzialmente ce ne sono ancora tanti. Lo sviluppo delle indagini scientifiche e tecniche, della profilazione fa sì che vengano scoperti prima, dopo uno o due omicidi. Oggi in Italia e nel mondo è impensabile che si verifichino eventi analoghi a quelli che avvennero negli Stati Uniti, in cui un serial killer uccise 33 persone, come un Ted Bundy o un John Wayne Gacy. In America troviamo gli spree killer, gli omicidi di massa: un individuo che entra in università con un’arma e uccide tutti quelli che incontra. Questi assassini sono difficilissimi da fermare perché non si ha modo di intercettarli, specialmente in una società come quella americana, dove procurarsi armi è estremamente facile.
Secondo lei, come si è passati dagli omicidi seriali di donne, come nel caso di Ted Bundy, ai femminicidi di oggi?
I concetti di serial killer e di femminicida sono molto distanti fra loro, ma alla base hanno sempre gli stessi principi: il possesso e il dominio sulla vita altrui, in particolare della donna. Spessissimo, infatti, le vittime dei serial killer erano donne, ma non solo. Alla base, comunque, troviamo sempre questa motivazione del dominio e del possesso sull’altra persona. Non c’è dominio più forte e definitivo dell’omicidio.
Negli ultimi anni, molti ragazzi hanno sviluppato una grande passione per il true crime: secondo lei, cosa cercano davvero in questi racconti e perché ne sono così tanto attratti?
Ci sono svariati motivi: innanzitutto, si cerca di capire le cose che sembrano più lontane da noi, dal nostro modo di vivere, dalla nostra cultura. Questo perché le cose che capiamo meno sono quelle che ci inquietano maggiormente. Guardandole, ascoltandole e cercando di comprenderle, viviamo una paura controllata. A ciò sono dovuti anche i successi dei generi horror e gotico e di tante altre storie che rendono la paura fruibile, restando protetti da uno schermo.
È stata la storia dell’ultimo tour di Indagini Live nei teatri italiani. Su questa vicenda, però, rimangono molti dubbi. Chi era, secondo lei, il Mostro di Firenze?
La verità deve essere cercata nella campagna intorno a San Casciano: l’assassino, secondo me, veniva da quei luoghi. La pista esoterica e l’ipotesi di un secondo livello non mi hanno mai convinto: ritengo fosse un individuo solitario, come è suggerito dal suo modus operandi.
Sì o no. Il delitto del 1968 è stata opera del Mostro?
Secondo me, no. La pistola con cui vennero uccisi Barbara Locci e Antonio Lo Bianco è sì la stessa utilizzata anche per gli altri omicidi, ma probabilmente ci fu un passaggio di mano o venne venduta. Anche il modus operandi è diverso: nel ’68 l’assassino non infierisce sul corpo della vittima femminile. Inoltre, il killer ha accompagnato il bambino, testimone dell’omicidio, alla casa più vicina. Vuol dire che l’assassino aveva un legame con lui. Ma questa è una mia supposizione.
A cura Chiara Orezzi e Lucrezia Aprili