Bosnia, 30 anni fa gli accordi di Dayton: dalla fine della guerra al ritorno delle tensioni etniche

Sono passati 30 anni dalla firma degli accordi di Dayton il 21 novembre 1995. Gli atti hanno posto fine alla sanguinosa guerra di Bosnia, che per tre anni aveva dilaniato il paese balcanico. I rappresentati di Bosnia-Erzegovina, Croazia e Jugoslavia, riuniti nell’omonima base militare in Ohio, raggiunsero un accordo che, prima di tutto, riportasse la pace nell’area e accontentasse tutte le componenti etniche. A distanza di tre decenni, si può affermare che l’obiettivo di breve termine per concludere la guerra abbia funzionato, ma si è rivelato meno efficace come strumento per la creazione di uno nuovo stato.

Modello consociativo debole: governo decentrato e frammentato
In rosso i territori della Republika Srpska, in bianco quelli della Federazione di Bosnia ed Erzegovina

L’accordo di pace permise di mantenere l’integrità territoriale della Bosnia, ma, per andare incontro alle richieste della minoranza serba, la nuova repubblica fu fondata su un impianto federale. Il territorio venne diviso in due entità semiautonome in base alla etnia maggioritaria, secondo il principio consociativo: la Republika Srpska (49% del territorio) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio). Entrambe dotate di ampi poteri autonomi in diversi settori.

Il sistema di governo

Tutte le più alte istituzioni federali – come la camera alta del Parlamento e la Corte Costituzionale – hanno seguito il medesimo modello e sono pensate proprio per garantire l’equilibrio etnico al loro interno. Anche la carica più elevata dello Stato, la presidenza, è tripartita: ricoperta da un serbo, un croato e un bosniaco, che si alternano ogni otto mesi. A rendere ancora più complesso il processo decisionale federale è presente la possibilità di invocare veti per tutelare «l’interesse nazionale vitale».

Il sistema è macchinoso e lento, incapace di rispondere alle esigenze del Paese ed è allo stesso tempo impossibilitato a cambiare perché imbrigliato dalla sua stessa costituzione. Dal ’95 il governo centrale di Sarajevo è riuscito in parte a rafforzarsi anche grazie al sostegno della comunità internazionale e dell’Alto Rappresentante Schmidt. Ma i tentativi di rendere unitaria la presidenza sono sempre falliti. E i cittadini non possono fare altro che sentirsi alienati. In un sistema sentito ancora come imposto dalle grandi potenze e non proprio. Così, gli stessi nazionalismi che hanno dilaniato il Paese negli anni Novanta e mai veramente sopiti, sono riemersi e hanno riacceso i contrasti.

Il nazionalismo e Milorad Dodik
La composizione etnica dei diversi cantoni della Bosnia-Erzegovina

Negli ultimi mesi, le tensioni etniche interne alla Bosnia-Erzegovina sono aumentate a causa di alcune misure adottate da Milorad Dodik, leader del partito indipendentista serbo Snsd. Il leader della Repubblica Srpska (2022-2025) ha approvato leggi in aperta contraddizione con la costituzione del Paese e con le decisioni dell’Alto rappresentante. Lo stesso Schmidt ha avvertito davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu che le tensioni sono diventate «una crisi straordinaria» che la Bosnia-Erzegovina deve affrontare e che «ha origine dai gravi attacchi della coalizione di governo della Repubblica Srpska agli accordi di Dayton», e che costituiscono una «minaccia alla pace e alla stabilità». Oltre a mettere in pericolo l’integrità territoriale e sociale, generano anche incertezza giuridica ed esecutiva con leggi locali che contraddicono l’autorità statale. «Questa situazione non è irreversibile, ma è grave – ha aggiunto Schmidt – La discriminazione etnica rimane un problema fondamentale radicato e complesso».

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