Il diario che l’America voleva cancellare

«Mamma, torno subito». Furono le ultime parole che Mohamedou Ould Slahi disse a sua madre prima di sparire. Non per ore, non per giorni. Per anni.
Quando richiuse la porta di casa in Mauritania per seguire la polizia per un “breve interrogatorio”, non poteva immaginare che stava per scomparire nel cuore più oscuro della macchina antiterrorismo americana. Non sapeva che lo avrebbero strappato alla sua famiglia, alla sua terra, alla sua identità. Non sapeva che avrebbe perso tutto, tranne una cosa: la voce. Una voce che ha tardato tredici lunghissimi anni prima di uscire da dietro le sbarre, ma che, quando l’ha fatto, è arrivata come un’esplosione di luce nel buio. Era il 20 gennaio 2015 e il mondo leggeva, per la prima volta, Guantánamo Diary, il diario scritto a mano in una cella d’isolamento da un uomo che non è mai stato incriminato, giudicato o condannato. Un uomo che è stato però torturato, privato del sonno, costretto a confessioni inventate, umiliato nel corpo e nella mente, spinto fino al limite della pazzia.

Quel libro non è solo un documento. È un testimone. È l’urlo sommesso di chi è stato disumanizzato ma ha deciso di non odiare. È una lettera dal fondo del pozzo. «Se mai può esserci qualcosa di buono in una guerra», scrive Slahi, «è che tira fuori dalle persone il meglio e il peggio». E in quelle pagine, tra l’orrore e la solitudine, si leggono anche piccoli atti di umanità che resistono, ostinati.

Chi è Mohamedou Ould Slahi

Mohamedou nasce nel 1970 in Mauritania, nono di dodici figli. Intelligente, determinato, si laurea in ingegneria in Germania e sogna una carriera nelle telecomunicazioni. Nel 1991, spinto dalla causa allora sostenuta anche dagli Stati Uniti, partecipa alla guerra contro il regime comunista in Afghanistan e riceve addestramento militare nel campo di Al Farouq, affiliato ad Al-Qaeda. Ma dopo la caduta del regime, rifiuta di combattere nella guerra interna tra fazioni islamiste e si ritira. «Non volevo combattere altri musulmani. Non avevo niente a che fare con la guerra contro l’America», dichiarerà anni dopo.
Tornato alla vita civile, lavora, si sposa, viaggia. Le sue relazioni familiari con alcuni membri di Al-Qaeda, seppur occasionali e mai operative, lo rendono però un bersaglio. Dopo l’attacco dell’11 settembre, la CIA lo segnala come figura sospetta. Nonostante nessuna prova concreta lo colleghi a piani terroristici, viene arrestato nel 2001 in Mauritania,

Il volto di un sistema

Guantánamo, la base militare americana a Cuba, fu trasformata nel 2002 in una prigione extragiudiziale per presunti terroristi. Un luogo volutamente al di fuori del diritto, dove gli Stati Uniti potevano trattenere senza processo persone accusate anche solo per “associazione sospetta”.

In quel sistema opaco, Mohamedou fu sottoposto a un trattamento che, come documentato da più rapporti ufficiali, configura chiaramente la tortura. Privazione del sonno, finte esecuzioni, minacce sessuali, isolamento totale, interrogatori continui per mesi. Gli fu mostrata persino una falsa lettera in cui si annunciava che sua madre sarebbe stata arrestata e portata a Guantánamo, “prima donna in una prigione interamente maschile”.
Nel 2005, quando gli fu finalmente concessa un’udienza, dichiarò: «Confessai ogni cosa. Confessai di essere coinvolto in piani che non conoscevo, solo per far cessare la tortura. Confessai anche di aver ucciso Kennedy». Eppure, né prima né dopo venne formalmente accusato.

Il potere della parola

Durante gli anni di detenzione, Mohamedou comincia a scrivere. Lo fa con un tono limpido, umano, incredibilmente empatico. Racconta le sue paure, i sogni, il dolore, ma anche i volti, i gesti, le contraddizioni dei suoi carcerieri. Scrive delle guardie che gli portano un biscotto, dei medici che lo ascoltano, degli interrogatori in cui si scusano.
Il manoscritto, lungo centinaia di pagine, subisce una pesante censura. Ma nel 2015, dopo un lungo processo legale, esce nelle librerie col titolo Guantánamo Diary. È il primo libro scritto da un prigioniero ancora rinchiuso. La sua pubblicazione scuote le coscienze di tutto il mondo.

Le conseguenze politiche: un diario che ha fatto tremare Washington

L’uscita del libro coincide con un momento chiave: pochi mesi prima, nel dicembre 2014, il Senato americano aveva pubblicato il celebre Senate Intelligence Report on Torture, che denunciava l’illegalità e l’inefficacia delle pratiche adottate dalla CIA nei “black sites” e a Guantánamo.
La voce di Mohamedou Slahi arriva come conferma vivente di quelle denunce. Le sue pagine, piene di nomi, dettagli, emozioni, mostrano ciò che i documenti ufficiali non possono raccontare: il volto umano della tortura.

Improvvisamente, Guantánamo non è più solo un problema giuridico o militare. È un problema morale. Il presidente Obama, già sotto pressione per la mancata chiusura del campo, accelera le procedure di revisione. Tra il 2009 e il 2017, il numero dei prigionieri scende drasticamente, passando da 242 a 41. Diverse nazioni alleate — tra cui Germania e Regno Unito — rinnovano le loro critiche. L’ONU dichiara la detenzione di Slahi una “violazione del diritto internazionale”. Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch rilanciano le loro campagne globali. La narrazione della “guerra al terrore” come necessità assoluta inizia a sgretolarsi sotto il peso di storie come quella di Mohamedou.

Negli Stati Uniti, la pressione cresce. Il pubblico ministero militare Stuart Couch, incaricato inizialmente di costruire il caso contro Slahi, si ritira per motivi etici: «Non potevo, da cristiano, dire di credere nella dignità umana e poi usare prove ottenute con la tortura». Nel 2016, dopo 14 anni di detenzione, Slahi viene finalmente liberato.

Un simbolo culturale

Il libro diventa un caso editoriale mondiale. Nel 2021 esce The Mauritanian, il film tratto dalla sua storia, con Jodie Foster e Tahar Rahim, che ottiene una nomination ai Golden Globe e rilancia il dibattito. Slahi, tornato in Mauritania, diventa una voce attiva nella difesa dei diritti umani. Gira il mondo raccontando la sua esperienza, non con rabbia, ma con una serenità disarmante. «Avevo due scelte: odiare, e morire dentro. Oppure perdonare, e restare vivo. Ho scelto di restare vivo».

Guantánamo oggi

La prigione resta però aperta. Nel 2025 vi sono ancora circa trenta detenuti. Alcuni sono stati assolti, ma non possono essere rimpatriati. La struttura, costosissima e sempre più isolata, continua a rappresentare una ferita aperta nella democrazia americana.
Con l’elezione di Donald Trump nel 2016, la politica cambia direzione. Il nuovo presidente firma un ordine per mantenere aperto Guantánamo “a tempo indefinito” e dichiara l’intenzione di “riempirlo di nuovi terroristi”. Non solo: lancia l’idea di riaprire la leggendaria prigione di Alcatraz, chiusa dal 1963, come simbolo di rigore. Nessuno dei due progetti prende realmente forma, ma il messaggio è chiaro: la paura può ancora riscrivere il diritto.

Un diario che vive

Oggi Guantánamo Diary è più di un libro. È un atto d’accusa, ma anche un monumento alla resilienza umana. È studiato nelle università, citato nei tribunali, letto da chi crede che i diritti umani non siano un lusso da concedere in tempi di pace.
Slahi non ha mai ricevuto scuse ufficiali. Nessuno ha mai pagato per ciò che ha subito. Ma la sua parola è sopravvissuta a tutto. In un mondo in cui le verità vengono spesso riscritte dai vincitori, Guantánamo Diary resta lì, intatto. Con la forza calma di una voce che ha attraversato l’inferno e ha trovato, contro ogni previsione, il coraggio di perdonare. «Tutti hanno una coscienza. Anche chi mi ha torturato. Alcuni di loro mi hanno chiesto scusa».

Elena Betti

Classe 2001, Laureata in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione all'Università di Pisa

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