In molti la ricordano a X Factor 2022, nella squadra di Ambra Angiolini, con il suo singolo Molecole. Ora, Lucrezia Maria Fioritti, in arte Lucrezia, torna con il nuovo EP Abbaiare, sotto l’etichetta Futura Dischi e con la produzione di Domenico Finizio dei Tropea, conosciuto proprio durante il talent. Un disco pop, elegante e malinconico che la cantautrice bolognese ha raccontato a MasterX in attesa delle due date di presentazione: il 25 gennaio al Mosso di Milano e il 7 marzo all’Efesto di Bologna.
Il disco si intitola Abbaiare, però, ascoltandolo, mi ha ricordato più un ululato malinconico.
«Vero, dal titolo sembrerebbe qualcosa di punk, ma è tutt’altra cosa (ride, ndr.). Il titolo nasce dalla canzone Abbaiare, in cui dico che mi piacerebbe abbaiare alle macchine o alle lucertole. È una metafora per dire che quando qualcosa mi disturba o mi fa paura vorrei avere l’irruenza di abbaiargli contro. Ma non con cattiveria, solo come reazione. È un reminder di lasciare uscire una parte istintiva, lontana dall’essere sempre molto controllati, dal non dover essere mai troppo o mai troppo poco, sempre costantemente calibrati».
La nostra parte animale seppellita e dimenticata è, infatti, il filo conduttore del disco. Come nasce l’idea?
«Nasce dal disagio del sentirsi spesso fuori luogo nella realtà che abbiamo disegnato per noi. Invece, tornando al mio cane, quando lo osservo mi sembra sempre che lui sappia dove deve stare, cosa deve fare, come deve essere. È un po’ come se, avendo dimenticato la nostra parte animale, fossimo sempre un pochino fuori luogo. Anche se la società non ci chiede più di ricordare questa nostra parte, il mondo ce lo chiede ancora. E una parte di noi ce lo chiederà sempre. Perché dimenticare il nostro lato animale significa privarsi di quell’istintività che spesso ci guida verso il punto giusto».
Il disco è costellato di riferimenti naturali. C’è un luogo particolare a cui hai pensato?
«Sì, lo sfondo del disco è la campagna bolognese. È la natura in cui sono cresciuta e in cui ho scoperto il rapporto con gli animali».
Un altro tema che emerge è il bisogno di fuga dalla città e la città in questione è Milano.
«Allora, Milano nel disco è un po’ metafora dell’iperfunzionalità sociale. In realtà, però, io a Milano devo tantissimo. È una città che mi ha cambiato e aiutato a crescere. Nel disco probabilmente l’ho privata della sua identità intera, identificandola solo con questo tratto. Ma è questo l’aspetto dal quale cerco di fuggire. Dal fatto che il tempo venga misurato in base a quanto possa essere produttivo. Tutto deve essere utile e funzionale. Quando, invece, perdere tempo per me è fondamentale. Milano, quindi, poverina, un po’ l’ho flagellata (ride, ndr.), ma è una città a cui devo tantissimo».
Quindi, tornare a camminare anche se il mondo ci chiede sempre di correre?
Sì, per me è fondamentale. Dormire un po’ di più, fare colazione. Cose semplici che contano tantissimo. I momenti importanti non sono solo la laurea, il matrimonio… ma anche le colazioni, le chiacchiere nel letto la mattina, un libro nel pomeriggio. Insomma, una vita in cui i momenti rimangono al centro della giornata».
In Quello che ho di te, invece, dici: «ridono di me che compro fiori, mi porto al ristorante a cena fuori». È una celebrazione dell’indipendenza un po’ alla Miley Cyrus o nasconde altro?
«Mi piacerebbe dirti che è così (ride, ndr), ma in realtà è un riferimento a una storia personale, non mia diretta, ma dei miei genitori. È un rimanere aggrappati a qualcosa che non c’è più e a fare al posto dell’altro qualcosa che vorresti fosse fatto per te. Pur di non lasciare andare via una storia d’amore, continui a immaginarla e ti compri i fiori per raccontarti che te li hanno portati, ma in realtà li hai presi tu».
Quindi anche «le vacanze per cuori soli» di cui parli non sono una critica del dating nel 2025?
«No, no, assolutamente, niente in contrario (ride, ndr.). Il senso è lo stesso. Fondamentalmente parlo di una persona che continua a cercare il romanticismo, forse nel posto sbagliato, ma continua a cercarlo».
Passando alla parte musicale, l’EP è quasi completamente suonato al pianoforte, tranne Los Angeles, che si regge su una chitarra acustica.
«Sì, per me il pianoforte è totalizzante. Ho studiato composizione classica e l’armonia è uno dei principali obiettivi quando scrivo. Sono tornata al piano anche sotto incoraggiamento del mio produttore, Domenico Finizio dei Tropea, che mi ha aiutato tantissimo a trovare una mia identità sonora. Los Angeles, invece, è nata con lui alla chitarra e quindi abbiamo scelto di mantenerla in questo modo».
In Portami via hai collaborato anche con un altro cantautore, Gobbi.
«Sì, è il mio compagno e scriviamo spesso insieme. Abbiamo iniziato a lavorare su una melodia che aveva pensato proprio per me. Siamo andati avanti quasi per un anno perché non riuscivamo a trovare una forma definitiva e poi è nata Portami via».
Parlando di XFactor, qual è il bilancio a quasi tre anni dall’esperienza?
«Il bilancio continua a cambiare nel tempo. Ci sono periodi in cui dico una cosa, altri in cui ne dico un’altra. Ogni esperienza continua a cambiare significato nel corso del tempo. Ora, sinceramente, mi dispiace un po’ di aver giocato una carta in un momento in cui non ero a fuoco artisticamente come lo sono adesso. Però, al tempo stesso, chi può dire che io non abbia scoperto davvero questo modo di fare, di scrivere, di produrre, proprio grazie a quell’esperienza in cui sono stata esposta? Per esempio, Finizio, il mio produttore, ha fatto il programma insieme a me con i Tropea».
Cosa significa essere una cantante emergente in Italia?
«La sensazione è quella di essere in tanti stretti dentro una stanza piccola, dove qualcuno a un certo punto riesce ad aprire la porta e passare in un’altra stanza. La sensazione è un po’ claustrofobica in questo momento. Questa sovrapproduzione nella musica, come in tutti gli altri settori, diventa problematica, ti fa pensare che non ci siano abbastanza orecchie.
Tre aggettivi per descrivere Abbaiare ?
«Malinconico, etereo e leggermente barocco».