Le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza sembrano decollare, rilanciate da una parte all’altra dell’oceano. Hamas il 17 dicembre ha parlato di un «dialogo serio e positivo» verso un accordo con Israele per chiudere le ostilità e liberare gli ostaggi. In passato, però, mesi di negoziazioni hanno più volte visto salire le speranze, per poi essere spazzate via poco dopo.
Il tavolo delle trattative
È tutto iniziato il 16 dicembre, quando il Premier Netanyahu ha richiesto e ottenuto dai giudici del processo in cui è imputato per abuso di potere, frode e corruzione, il rinvio dell’udienza. Nelle stesse ore, il Ministro della Difesa israeliano Katz ha dichiarato in una riunione della Knesset, il Parlamento, che un accordo era alla portata di entrambe le parti.
Addirittura, l’agenzia Reuters, nel pomeriggio del 17 dicembre ha lanciato la notizia di un viaggio segreto di Netanyahu al Cairo per partecipare ai colloqui. Informazione poi smentita da Gerusalemme.
Rispetto alle precedenti negoziazioni, in cui entrambi i lati hanno evitato di far trapelare dettagli con i media, questa volta le indiscrezioni vengono rilanciate. Secondo alcuni analisti, potrebbe essere un segno di un round di trattative più serio.
I mediatori starebbero lavorando a un iniziale cessate il fuoco di 60 giorni. Durante questa fase, Hamas rilascerebbe alcuni dei 105 ostaggi ancora detenuti a Gaza in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi nello Stato Ebraico e, inoltre, sarebbero rilasciati permessi estensivi per l’ingresso di aiuti umanitari.
I mediatori qatarioti ed egiziani, in carico del dialogo insieme a quelli americani, sperano che la tregua iniziale si trasformi poi in una permanente.
Israele ha richiesto che le sue forze rimangano in due segmenti di Gaza. Il primo è il corridoio di Netzarim che attraversa il centro di Gaza e divide il nord e il sud dell’enclave. Il secondo sarebbe il corridoio di Filadelfi, al confine con l’Egitto.
Linea rossa che non era precedentemente considerata valicabile da Hamas. L’organizzazione era categorica su un ritiro completo di Tel Aviv dalla Striscia, ma ora sembra disposta a tollerare una presenza ebraica legata a un ritiro dalle altre zone.
Il giornale ebraico Haaretz ha addirittura assicurato che la prima fase comprenderebbe la normalizzazione dei rapporti trae Israele e Arabia Saudita in vista del «percorso verso uno Stato palestinese» e dell’ingresso di Riad nella coalizione di Paesi arabi che si occuperebbe della ricostruzione della Striscia.
Cos’è cambiato?
Negli ultimi mesi, gli equilibri mediorientali hanno subito un cambio radicale, creando condizioni favorevoli per un patto.
Innanzitutto, l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca negli Stati Uniti. A inizio dicembre, il neo-presidente americano Donald J. Trump ha lanciato un messaggio poco fraintendibile sui suoi canali social: «Se gli ostaggi non saranno liberati prima del 20 gennaio (data di insediamento, ndr.) in Medioriente ci sarò un prezzo pesante da pagare».
I progetti di Trump nella regione sono già iniziati. I negoziati hanno subito un’accelerata già da fine novembre dopo che Steven Witkoff, nominato inviato speciale in Medioriente da Trump, si è incontrato con Netanyahu e il Premier qatariota.
La guerra è arrivata al culmine. Il punto degli americani è che Israele ha ottenuto tutto l’ottenibile dall’azione militare a Gaza. Allo stesso tempo, le teste dei vertici di Hamas sono state decapitate e, ora, il gruppo è più isolato che mai.
Lo smantellamento di Hezbollah, la vittoria di Hayat Tahrir al Sham in Siria e l’impotenza dell’Iran rendono appetibile un compromesso. I leader di Hamas speravano che la guerra si allargasse alla regione intera grazie alle milizie dell’asse sciita. Ma ora, per citare il Segretario di Stato americano Antony Blinken, sembrano essersi accorti che “il cavaliere non arriverà a salvarli”.