Caos migranti in Albania: prevale il diritto europeo o quello nazionale?

L’Unione Europea è un capolavoro di ingegneria costituzionale. Un esperimento ibrido, in cui cercano di convivere in maniera armonica ordinamenti nazionali e sovranazionali. Non sono rari, però, scontri tra singoli Stati e leggi europee. Ultimo atto, i recenti rapporti tesi tra Palazzo Chigi e la magistratura sulla questione dei centri accoglienza migranti in Albania. Il tribunale di Roma ha sospeso per la seconda volta in un mese il trattenimento di gruppi di migranti di Bangladesh ed Egitto, sollevando il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea (CGUE) in Lussemburgo.

Una foto dei centri per migranti di Schengjin, in Albania.
Limitazioni legittime

Partendo dalle basi, la possibilità di una legislazione sovranazionale in grado di influenzare il nostro paese è sancita dall’articolo 11 della Costituzione: « [L’Italia] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Certo, i padri costituenti non avevano ancora in mente, tra il 1947 e il 1948, l’Unione Europea. I loro sforzi erano indirizzati verso le Nazioni Unite. Ma la loro lungimiranza ha permesso all’Italia di essere pronta anche per un’istituzione come l’Ue.

Fatta questa doverosa premessa, la questione che anima la cronaca nazionale è legata alla supremazia del diritto comunitario su quello nazionale. Questione che, fin da subito, ha dato filo da torcere a fiumi di giuristi.

Il problema riguarda le norme direttamente applicabili perché solo per queste può porsi il dubbio del giudice nazionale di applicare la norma di Bruxelles o, nel nostro di caso di Roma, qualora il loro contenuto si riveli incompatibile.

La supremazia dell’Unione Europea

Mettiamo subito le carte in chiaro. Nell’Unione vige il principio del primato del diritto europeo. Ovvero, in caso di un conflitto tra un aspetto comunitario e uno nazionale è sempre il diritto europeo a prevalere.

Questo principio non è sancito dai trattati dell’Unione. Nonostante ci sia un breve allegato al Trattato di Lisbona che ribadisce il concetto, la supremazia europea si è sviluppata nel tempo grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Un organo, con sede in Lussemburgo, che ha il compito di garantire il rispetto del diritto comunitario e di dirimere le controversie tra governi e istituzioni europee.

Le sentenze chiave in quest’ottica sono due: Van Gend en Loos contro Nederlandse Administratie der Belastingen del 1962 e Costa contro Enel del 1964, che riguarda proprio l’Italia.

In questi casi, la Corte ha chiarito il primato del diritto comunitario. Indipendentemente dalla data di adozione, in caso ci sia un conflitto, le disposizioni nazionali devono essere annullate e i tribunali devono rifiutarsi di applicarle. Il tutto, per tutelare il diritto dei cittadini di godere in maniera uniforme dello spirito europeo in ogni parte dell’Unione.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Costa contro ENEL: Una questione di soldi e principio

Nel 1964, il governo italiano nazionalizzò il settore elettrico, generando il malcontento tra gli azionisti delle società nazionalizzate. Il signor Flaminio Costa, utente e azionista di Edisonvolta, una delle aziende coinvolte, si rifiutò di pagare una bolletta della luce recapitatagli dalla neonata ENEL.

I soldi in ballo erano pochi, si trattava di 1925 lire. Il punto era un altro. Costa, oltre a essere stato danneggiato dalla nazionalizzazione, riteneva che Enel non fosse subentrata validamente in quanto la legge di nazionalizzazione e gli atti conseguenti erano contrari alla Costituzione e al Trattato CEE. In particolare, contraria al principio di concorrenza.

Il giudice conciliatore rinviò la causa alla Corte Costituzionale. I magistrati statuirono che il Trattato CEE era stato ratificato sulla base dell’art. 11 del testo fondamentale, ma che il contenuto non poteva conferire alla norma europea un rango privilegiato. Sulla base di questo, affidarono la prevalenza alla legge più recente, quella nazionale.

La Corte costituzionale decise poi di  intervenire in merito alla legge istitutiva dell’ENEL, affermando che, poiché i trattati europei erano stati ratificati con una legge ordinaria potevano essere abrogati o modificati da norme successive.

La Corte di giustizia dell’Unione Europea si pronunciò in via pregiudiziale sulla stessa vicenda, ribaltando la visione della corte costituzionale. I giudici affermarono il primato del diritto comunitario direttamente applicabile sulle norme interne contrastanti.

Una foto dei centri per migranti di Schengjin, in Albania.
Il caso dei migranti in Albania

Il terreno di scontro tra magistratura e governo sulla questione dei migranti in Albania riguarda la definizione di Paesi sicuri. In merito, la CGUE, il 4 ottobre 2024, ha emesso una sentenza in cui ha chiarito che per gli Stati dell’Unione possono essere definiti come sicuri solamente i Paesi in cui è presente una situazione di sicurezza su tutto il territorio, senza eccezioni di categorie o di zone.

Inoltre, in base all’allegato I della direttiva 2013/32 UE, affinché uno Stato possa essere inserito nella lista bisogna dimostrare l’assenza di persecuzioni, tortura, trattamenti disumani o pericoli a causa di conflitti interni o internazionali.

Sorge, però, su questo punto, un problema chiave. Non esiste una lista comune a tutti gli Stati membri. Ci sono solo criteri di garanzia stabiliti dalla direttiva del 2013. Ogni Stato, dunque, decide autonomamente la propria lista di Paesi sicuri. Qualifica che deve essere riesaminata da un giudice al momento di ciascuna decisione.

Basti pensare che la Germania, nell’agosto del 2024, ha rimpatriato 28 cittadini Afghani in uno Stato governato dai Talebani e che la Francia sta negoziando con Iraq, Egitto e Kazakhistan per accelerare i rimpatri. Il Cairo sarebbe destinato ad accogliere migranti del Maghreb, Astana quelli afghani e Kabul i siriani.

Ciononostante, il tribunale di Roma ha scelto di seguire la sentenza della CGUE e di ordinare la liberazione di richiedenti asilo provenienti da Bangladesh ed Egitto.

La risposta del governo, arrivata il 24 ottobre, è stata quella di varare un decreto legge contenente una lista di Paesi sicuri. Tra cui Bangladesh, Egitto, Tunisia, Costa d’Avorio e Perù. Attori rispetto alle quali le associazioni a tutela dei diritti umani hanno registrato sistematiche violazioni dei diritti fondamentali.

I primi migranti accolti negli hotspot di Schengjin, in Albania.
La strategia del governo italiano

La reazione del governo Meloni allo stop dei giudici è stata quella di creare un atto normativo che nella gerarchia acquisisce il rango di fonte primaria. Una linea, quella della Premier e del Viminale, fermamente ancorata alla convinzione che i giudici stiano esondando dalle loro competenze.

L’esecutivo è convinto di poter vincere la battaglia. La sicurezza scaturisce dal nuovo Patto europeo sulle migrazioni, la cui entrata in vigore è prevista per il 2026. Un accordo che prevede sia procedure accelerate che la costruzione di centri fuori dai confini nazionali, nonché una ridefinizione di concetto di paese sicuro, eliminando la necessita di una sicurezza diffusa in ogni ambito.

Tradotto, è come se il governo avesse anticipato altri Paesi europei nel mettere in pratica soluzioni già discusse. Il tutto, in un accordo successivo alla  sentenza della Corte di Giustizia Ue e, dunque, con precedenza legislativa.

Inoltre, un altro motivo di convinzione è che il decreto legge ha scremato ulteriormente i Paesi sicuri, scendendo da 22 a 19 Stati, aggiungendo parametri di valutazione che non sarebbero in contrasto con le norme europee. Anzi, ne avrebbero delineato i contorni, considerando anche che la sentenza della Corte del Lussemburgo riguardava un cittadino moldavo che richiedeva asilo in Repubblica Ceca. Contesto estremamente diverso da quelli in gioco nel caso dei migranti in Albania.

Il problema che emerge è relativo, però, proprio alla sicurezza totale di questi Stati. L’Italia ha inserito nella lista anche Bangladesh ed Egitto. Paesi in cui la sicurezza totale non è garantita per tutti i gruppi minoritari. Questo non significa che non si possa respingere una richiesta d’asilo di migranti provenienti da questi Paesi. Ma, semplicemente, che non possono essere esaminati in procedura accelerata, quella che porta al trasferimento immediato in Albania.

Questione, quella dei Paesi Sicuri che resta vaga. Come riferiscono alcune fonti di governo citate dal Corriere della Sera, paradossalmente, anche l’Italia e la Francia potrebbero essere considerati Stati parzialmente insicuri. In quanto alcune periferie non garantiscono sicurezza sociale, economica o civile.

La Premier Giorgia Meloni e il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Possibili sviluppi: «Meglio la CGUE che i giudici italiani»

La risposta della Corte Europea dovrebbe arrivare entro pochi mesi. Certo, in linea teorica, essendo le decisioni della CGUE vincolanti, se il provvedimento venisse giudicato in contrasto con la normativa europea il progetto Albania sarebbe destinato a una paralisi permanente.

La decisione finale spetta dunque ai giudici in Lussemburgo. Opzione che Meloni, come svelato in un retroscena di Repubblica, non dà persa in partenza. «Meglio dipendere dalla Corte di Giustizia UE che dai giudici politicizzati italiani», avrebbe detto la Premier.

La leader di Fratelli d’Italia è convinta che la sentenza sarà essenziale per definire il pragmatismo europeo dei prossimi anni in relazione ai migranti. Uno stop, infatti, potrebbe legare le mani ai 27. Soprattutto considerando le precedentemente citate esperienze tedesche e francesi e il nuovo patto che entrerà in vigore nel 2026.

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Conrad, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson.

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