Miriam Colombo, “la mia vita con la bestiaccia”

Miriam ha 23 anni, studia medicina e appena ci sediamo racconta di un esame di chimica che le dà il tormento. “Ma non mollo, lo passerò a tutti i costi”. E noi le crediamo, perché Miriam nella sua giovane vita ha affrontato sfide ben più difficili. È nata con la fibrosi cistica, una malattia genetica che, con il piglio di un vero medico, spiega: “è una patologia degenerativa, che determina una produzione eccessiva di muco e compromette molti organi”. E anche se sconosciuta ai più, in Italia si stima che ci siano 6000 malati di fibrosi cistica, un portatore sano ogni 30 persone.

Miriam Colombo, 23 anni, è la protagonista della campagna di Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica

Come si scopre di avere la fibrosi cistica?
Quando sono nata ho fatto un prelievo del sangue per analizzare il DNA in cerca di mutazioni. E sono risultata positiva al baseline della fibrosi cistica, per cui hanno approfondito con ulteriori esami, tra cui anche il “famoso” test del sudore – un test diagnostico che dosa il cloro nel sudore, ndr – che è risultato positivo. E tutto ciò è accaduto che avevo un mese e mezzo.

I tuoi genitori erano a conoscenza di essere portatori sani del gene?
No, l’hanno scoperto insieme alla mia diagnosi. Nonostante la fibrosi cistica non sia rara, nel 2001 non se ne parlava. Quindi lo shock è stato doppio, la malattia e l’ignoto. Mia mamma tornata a casa cercò in un’enciclopedia del 1965 la malattia e quando lesse l’aspettativa di vita scoppiò a piangere. E sua nonna le disse “lei è così bella, vedrai che starà bene”.

Una visione dostoevskiana della bellezza
Sì, esattamente. (Ride)

Quando ti hanno detto di avere la fibrosi cistica?
A sei anni. Ero a fare un controllo e, presa dall’euforia di saper leggere, ho sillabato la parola che era proprio sopra la mia testa. Lì chiesi ai miei genitori “ma io sono fibrosi cistica?”. Tornata a casa ho chiesto di spiegarmi e capii il perché di tutte le medicine, le visite e le terapie.

Ti sei mai sentita “diversa” da bambina?
No, perché per me io ero normale e chi non prendeva i farmaci era “strano”. Invece, dal momento in cui mi spiegarono, ho capito che forse quella un po’ strana ero io. (Ride)

Il periodo dell’infanzia è stato positivo?
Fino ai 16 anni me la sono cavata. A 17 anni, però, la situazione è declinata a causa di un batterio polmonare. E, da quel momento, è iniziato un iter di ricoveri intensi. Ho perso dieci chili, ho iniziato a non uscire più e a frequentare la scuola online.

Una malattia poco conosciuta, ma molto complessa.
La fibrosi cistica è una malattia complessa e imprevedibile. Ci sono persone che a 14 anni vengono a mancare. Ce ne sono altre che fanno due trapianti di polmoni per continuare a vivere. Però, nella vita di tutti i giorni noi non cerchiamo di vivere in quest’ottica, perché se no è la fine.

Qual è l’aspetto più difficile?
La cosa brutta di una malattia come la fibrosi cistica, è che non puoi solo passivamente fare le terapie e prendere i farmaci. Devi avere un mindset positivo, mantenere i nervi saldi e andare avanti. Ma la cosa peggiore, per me, è l’aspetto sociale.

Cosa intendi?
Quando smetti di andare a scuola e non esci, non hai amici. Oppure quando frequenti ambienti dove le persone, per fortuna, non hanno problemi di salute, non capiscono te e il tuo problema. E da quando sono all’università non ho trovato un ambiente migliore.

Qual è la routine di una persona affetta da fibrosi cistica?
Ho iniziato a fare due aerosol al giorno, fino a farne dieci in età adolescenziale. Poi c’era la fisioterapia respiratoria, per liberare le vie aeree, tre volte al giorno, una quarantina di minuti a seduta. Continue flebo di antibiotici, cortisonici e antipiretici, che facevo un po’ in ospedale e un po’ a casa. E, infine, una quarantina di pastiglie tutti i giorni. Da qualche anno, poi, si è aggiunta anche l’insulina per via del diabete.

Alcuni dei medicinali che Miriam utilizzava durante la sua giornata

E a scuola?
Dovevo portarmi dietro aerosol e i medicinali. Anche quelle rare volte in cui sono andata in vacanza, forse due, dovevo avere una valigia solo di farmaci. Nel 2020, poi, ho messo il port-a-cath, un catetere venoso centrale, perché le vene periferiche perché non reggono più. E quindi si è aggiunta la parte di cura di questo accesso venoso.

In un certo senso si può dire che eri già medico prima di fare medicina.
(Ride) Sì, bisogna diventare dottori di sé stessi.

Hai sempre voluto fare il medico?
Da bambina, mettevo i batuffoli di cotone sotto la maglietta delle Barbie e facevo finta che fossero incinte. E alle donne in gravidanza chiedevo “di quanto è?”. Poi, per un breve periodo, ho avuto la fase veterinario. Ma non potrei, sono troppo empatica nei confronti degli animali.

Il test d’ingresso lo hai passato al primo tentativo?
No, l’ho fatto due volte perché non sia mai che le cose siano facili. La seconda volta ho trovato una domanda sulla fibrosi cistica, e ho capito che era la volta buona.

Il tuo sogno?
Io sono molto appassionata della radiologia, anche perché chi meglio di me, che ha provato tutti gli esami radiologici esistenti, può dare una mano? Quindi sogno di diventare radiologa ecografista, ma mi piacerebbe farlo nel Motomondiale, la mia passione.

Il tuo più grande rimpianto, se ne hai uno?
È brutto da dire, ma credo sia aver legato con persone con la mia malattia. Io non ho mai percepito competizione, ma dall’altra parte non ho avuto esperienze positive perché quando ci sono delle differenze nello stato di salute, seppur con la stessa malattia, nascono delle gelosie. E io questa cosa la vivo malissimo.

Gelosie, tipo?
Ad esempio, io da un anno e mezzo assumo un farmaco sperimentale che si chiama Trikafta e sono rinata. Ma per questo mi sono sentita attaccata, da quelle che pensavo fossero mie amiche. Una sorta di guerra fra poveri.

Quindi niente più medicinali?
I farmaci li prendo sempre, però niente più ricoveri e terapie respiratorie. Ho anche iniziato a nuotare e ho un’energia che non avevo da tempo. L’ultima volta mi hanno fatto una tac e hanno visto che uno dei miei polmoni è uguale a quello di una persona sana.

La ricerca è essenziale.
Assolutamente, per questo con il mio gruppo di sostegno abbiamo raccolto più di 115.000 euro, per finanziare progetti di ricerca scientifica.

E poi è arrivata la chiamata dal Quirinale…
A febbraio 2023. Ho messo giù tre volte, pensando fosse uno scherzo. Allora hanno chiamato mio papà, il cui primo istinto è stato chiedere cosa avesse fatto. Poi la segretaria ci ha spiegato che ero stata scelta per ricevere l’onorificenza di Cavaliere al Merito per il mio impegno nella raccolta fondi.

Miriam Colombo con Sergio Mattarella

Il tuo primo pensiero?
Dopo aver realizzato, ho pensato che mancava solo un mese e dovevo ancora trovare un outfit. (Ride)

Dalla malattia si impara qualcosa?
A pesare le cose. La vita ha sempre qualcosa in serbo dietro l’angolo, quindi non bisogna preoccuparsi troppo, perché la preoccupazione non cancella quello che può arrivare e ti rovina anche il momento. Le difficoltà esistono e vanno affrontate, non temute.

Credi in Dio?
Non ho la presunzione di dire che non esista un dio, ma personalmente non ci credo. Perché, diciamoci la verità, per ora non ho visto particolari segni divini. (Ride)

 

Vittoria Giulia Fassola

Classe 2001. Ligure e anche un po' francese. Laureata in International Relations and Global Affairs, all'Università Cattolica di Milano. Mi interesso di politica estera e di tutto ciò che penso valga la pena di raccontare. Il mio obiettivo? Diventare giornalista televisiva.

No Comments Yet

Leave a Reply