7 ottobre un anno dopo: il racconto della guerra da chi la vive ogni giorno

È passato un anno dal 7 ottobre 2023. Un anno dal Diluvio Al Aqsa, l’operazione scagliata da Hamas via terra, via mare e via aria. I miliziani che uccidono 1200 israeliani e ne rapiscono 251, stuprano le donne, devastano i Kibbutz e il Nova Festival. I 5000 missili lanciati da Gaza sullo Stato Ebraico.

In mezzo, la guerra. I raid israeliani sulla Striscia, i boots on the ground ebraici, le battaglie diplomatiche, la caccia a Sinwar, le operazioni futuristiche del Mossad, le teste dei leader di Hamas e Hezbollah che cadono una dopo l’altra.

41,615 i morti nella Striscia di Gaza, 92mila i feriti, 42 milioni le tonnellate di macerie  (l’ONU sostiene che serviranno 700 milioni di dollari per rimuoverle), il 90% del Pil perso. Dal lato israeliano, 727 soldati morti nei combattimenti e 67 miliardi di dollari il costo della guerra entro il 2025 (il 12% del Pil).

MasterX ripercorre un anno di conflitto insieme a David Zebuloni, corrispondente da Israele per Libero Quotidiano e giornalista della testata israeliana Makor Rishon.

Un murales a Tel Aviv dedicato agli ostaggi israeliani detenuti a Gaza.
Un murales a Tel Aviv dedicato agli ostaggi israeliani detenuti a Gaza.
7 ottobre 2023

Quando David Zebuloni risponde al telefono è in macchina. Sta tornando a Tel Aviv da Gerusalemme. In Israele è appena finita la festa di Rosh haShana, il capodanno ebraico.

David Zebuloni, corrispondente di Libero da Israele e giornalista di Makor Rishon.

«Le feste dovrebbero essere caratterizzate da felicità. Quest’anno, però, non è così. Il pensiero di tutti gli israeliani è ancora rivolto ai 101 ostaggi nella Striscia, alcuni vivi e alcuni morti, alle famiglie in lutto, ai 100mila sfollati, al Libano e all’Iran.  In Israele il dibattito sul festeggiare o meno è stato molto acceso. Ha ragione chi dice che la vita continua e chi dice che bisognerebbe fermarsi. Non c’è giusto o sbagliato», racconta.

Il  7 ottobre 2023 è ancora vivo nei suoi occhi. Il suo ricordo è quello di una Tel Aviv deserta, come nel più severo dei lock down: «Vedere in quella maniera la città fu uno shock. Non paragonabile a quanto hanno vissuto altri israeliani, ma comunque un’esperienza terrificante. Tel Aviv è vita. Non dorme mai, pullula di giovani che riempiono le strade a ogni ora del giorno. Invece, era deserta. Era una scena apocalittica. Nessuno sapeva bene cosa fosse successo. Cercavo di informarmi come potevo: gruppi Telegram, web, programmi televisivi in cui i conduttori erano in difficoltà. C’era la consapevolezza di vivere un momento chiave nella storia del Paese. E tu sei lì che assisti. Senza poter fare nulla».

Quel che resta di Hamas

A distanza di un anno dal 7 ottobre 2023, Hamas non è più una minaccia per l’esistenza di Israele. Continua a esistere come organizzazione, continua a vivere la sua ideologia, ma non ha più i mezzi per combattere come faceva all’inizio della guerra.

«Non si può parlare, però, di una vera vittoria» – avverte il giornalista- «Il punto chiave rimangono i 101 ostaggi ancora nella Striscia: con loro Hamas ha una carta troppo forte da giocare. Poi Yayha Sinwar, il leader dell’organizzazione terroristica, è ancora vivo. Magari nascosto in uno dei labirinti sotterranei di Gaza, oppure, come sostenuto Ehud Yari, giornalista israeliano che aveva un contatto diretto con il latitante, potrebbe essere scappato, probabilmente in Egitto. Sinwar rimane il principale ostacolo allo stop del conflitto e al rilascio degli ostaggi. E non lo dico io, lo dicono i mediatori americani».

Da sinistra verso destra, Isma’il Haniyeh (Leader politico di Hamas ucciso da un raid israeliano a Teheran) e Yayha Sinwar leader di Hamas nella Striscia ancora latitante.

Discorso diverso quello che riguarda la strategia militare israeliana. «Sicuramente ci sono stati errori, come del resto in tutte le guerre. Ma combattere a Gaza è stato qualcosa di inedito. Una guerriglia che si dipana tra tunnel sotterranei, edifici civili trasformati in infrastrutture terroristiche e  la densità di popolazione più alta del mondo. Israele ha l’interesse a tutelare il più possibile i civili, perché ogni vittima è un colpo enorme per i valori incarnati da una democrazia e per il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Ma la guerra è estremamente complessa. A questo c’è da aggiungere la leadership di Gaza, che propone il martirio come modo di combattere. Il portavoce di Hamas dichiarò che “purtroppo non c’era abbastanza sangue palestinese per la causa”, solo per fare un esempio. Le perdite civili pesano in maniera rilevante e sicuramente ci sono stati errori, ma le considerazioni tecniche dell’esercito spettano agli analisti militari», racconta Zebuloni.

Uno dei tunnel sotterranei nella Striscia di Gaza.
Il mondo arabo spaccato: Hezbollah e gli accordi di Abramo

L’altro fronte della guerra è ed è stato più ampio. Riguarda l’Iran e i suoi alleati regionali, primo su tutti Hezbollah in Libano. Alle origini dell’attacco di Hamas c’era il tentativo di frenare la spinta  degli Accordi di Abramo e della normalizzazione dei Paesi arabi con Israele per evitare di rimanere isolati nella regione.

Infatti, dopo la pace con l’Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994, il processo si è allargato fino ad arrivare agli Accordi di Abramo del 2020 che hanno coinvolto Marocco, Bahrain, Sudan ed Emirati Arabi Uniti e, all’alba del 7 ottobre, ai timidi vagiti di un processo di normalizzazione con l’Arabia Saudita sotto la guida degli USA. Una struttura regionale che si è riproposta anche nel primo attacco missilistico iraniano di aprile, quando Giordania e Arabia Saudita aiutarono Israele a intercettare l’offensiva.

Infografica che descrive gli Accordi di Abramo. Fonte: Aspenia Online.

«Credo che questa guerra sia nell’interesse arabo moderato quanto in quello di Israele. Giordania, Emirati e Arabia Saudita hanno grande interesse a vedere eliminate le realtà terroristiche come Hezbollah e gli Houthi in Yemen e vedono nell’Iran una grave minaccia alla stabilità mediorientale. E credo che Netanyahu lo abbia capito bene. Bibi ha sempre concepito il Medioriente come diviso in due fazioni: una moderata con cui allearsi e una radicale da distruggere. Quindi credo stia puntando a creare una sorta di asse per stabilizzare l’area», dice il giornalista.

La guerra a Hezbollah è il secondo passo dopo Hamas. E il conflitto potrebbe essere molto più rapido. Questo per motivi geografici e strategici. Il Libano non è Gaza con i suoi dedali e la sua densità abitativa. Favorisce gli attacchi aerei che, uniti al grande potere tecnologico ebraico, spianano la strada a Israele. L’obiettivo è quello di creare una zona cuscinetto fino al fiume Litani per far tornare gli israeliani sfollati nel nord a casa e chiudere la minaccia libanese una volta per tutte.

Una ricostruzione della possibile zona cuscinetto a ridosso del fiume Litani. Fonte: Il Politico Web.
Lo spettro di un conflitto con l’Iran

Lo spettro che aleggia sul conflitto fin dal 7 ottobre rimane quello di un confronto diretto con Teheran. Gli ultimi avvenimenti hanno riacceso il timore di un’escalation. E ora, la guerra al regime degli Ayatollah non sembra più una possibilità recondita.

«Non credo che sia nell’interesse dell’Iran il coinvolgimento in una guerra totale. Perché la Repubblica Islamica si trova in un momento di estrema vulnerabilità, non ha le forze per affrontare Israele direttamente e il suo alleato più prezioso è in ginocchio (Hezbollah, ndr). Gli ultimi attacchi sembravano essere un tentativo disperato per poter rivendicare di aver risposto in qualche maniera», racconta Zebuloni.

La folla radunata a Teheran alla preghiera per la morte del leader di Hezbollah Nasrallah.

Se da un lato un’escalation totale da Terza guerra mondiale sembra da escludere, dall’altro non ci sono certezze: «Dubitavamo in tanti che Israele attaccasse il Libano in maniera così assoluta, invece è successo. Nonostante nessuna delle due parti voglia un’escalation apocalittica, lo Stato Ebraico è intenzionato a difendere la sua sicurezza una volta per tutte. E  “decapitare la testa del serpente”, come si dice in Israele, ovvero Teheran, potrebbe essere considerato un modo per risolvere definitivamente la questione. Tutto è possibile».

La rinascita di Netanyahu

Dopo il fallimento nel prevenire il Diluvio Al Aqsa il 7 ottobre 2023, Benjamin Netanyahu ha subito un tracollo totale nei suoi consensi che è continuato fino a poco tempo fa. «Il rancore nei confronti di Netanyahu era tanto»- racconta Zebuloni- «E parlo anche delle persone comuni: in strada, al bar, i tassisti. Persone che avevano sempre votato Netanyahu dicevano che non lo avrebbero mai più sostenuto. Ora, però, la situazione è diversa. Bibi è risorto come una fenice. Le mosse vincenti come l’eliminazione del leader di Hezbollah, Nasrallah, lo smantellamento della milizia e l’uccisione e del capo politico di Hamas, Haniyeh, lo hanno rilanciato. Gli israeliani vogliono sicurezza e ora Netanyahu ha dimostrato di poterla portare. Aggiungo, però,  che il buon Shimon Peres (ex Premier e ministro Israeliano, ndr) diceva che i sondaggi sono come il profumo, vanno annusati, non bevuti. Per cui, fino alle prossime elezioni è ancora tutto da scrivere».

Da sinistra verso destra: Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, Benjamin Netanyahu, Premier, e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze.

Rimangono comunque i rapporti tesi con l’estrema destra, essenziale per la coalizione a guida Likud, il partito di Netanyahu. La destra di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir che spinse per la riforma della giustizia che portò migliaia di israeliani a manifestare in piazza e che imbarazza il leader per le sue posizioni radicali. «Sulla guerra, però,» -dice Zebuloni- «la loro posizione è vicina a quella di Netanyahu. Ovvero una vittoria totale per eliminare ogni minaccia terroristica dalla regione».

E la pace?

È sempre complesso parlare di pace in Medioriente. Nel 1993, gli Accordi di Oslo siglati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat avevano illuso in molti su un possibile percorso verso una convivenza pacifica. Ma poi la storia ha dimostrato il contrario.

Dal 7 ottobre 2023 sono stati tanti i tentativi intavolati per raggiungere un cessate il fuoco permanente. Vari attori internazionali hanno provato ad agire come intermediari, ma con scarso risultato. E la prospettiva di uno stop ai combattimenti, almeno nel breve periodo, sembra ancora lontana. Il rischio più grande, evidenziato da molti analisti,  è che ormai la frattura tra le due parti potrebbe essere diventata insanabile, dilaniata dall’ennesimo conflitto sanguinoso.

Sicuramente, però, sostiene Zebuloni, «una strada per arrivare alla convivenza potrebbe passare dalla collaborazione di Israele con gli altri Paesi arabi. Lo Stato Ebraico dovrebbe condividere con le realtà moderate circostanti, una su tutte l’Arabia Saudita, la rinascita della Striscia. Una ricostruzione in collaborazione con una coalizione araba che non deve ripercorrere gli errori della leadership corrotta dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. La storia del Medioriente insegna  che l’inaspettato è sempre dietro l’angolo. Nessuno, per esempio, avrebbe mai scommesso che Israele avrebbe stretto la mano all’Egitto e alla Giordania dopo la guerra di Yom Kippur del 1973. La prospettiva storica ci permette di vedere dei cicli che non avremmo mai pensato di vedere.  Per questo dico che l’intervento del mondo arabo circostante è essenziale, perché Israele da solo non può riuscire a ricostruire una realtà per entrambi».

 

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Conrad, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson.

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