I giovani italiani si esprimono sempre più nella loro lingua madre, lasciando a morire i rispettivi dialetti. Nel 2015, con l’ultima rilevazione dell’Istat, più della metà degli under-25 parla esclusivamente l’italiano in famiglia, dato che sale al 90% se con estranei. I dialetti, soprattutto nel centro e nel nord-ovest, stanno lentamente sparendo. Ma ora Google potrebbe metterci una pezza dopo che, negli ultimi giorni, la sua piattaforma Translate ha implementato 110 nuove lingue. Tra queste i “dialetti” italiani.
Un vantaggio per milioni di persone
Prima di toccare la delicata questione dialettale, va detto che Google ha inserito nuovi idiomi che consentiranno l’accesso allo strumento di traduzione a oltre 600 milioni di persone, l’8% della popolazione globale. Molte delle lingue introdotte dall’aggiornamento, basato sullo strumento di intelligenza artificiale PaLM 2 larg, sono africane, parlate da comunità significative ma tutto sommato piccole che, di contro, spesso non sanno esprimersi in linguaggi diversi dai loro.
Ma ci sono anche parlate più diffuse, come il cantonese o il punjabi, maggioritarie rispettivamente in ampie aree della Cina e del Pakistan. E altre considerate estinte, come il dialetto celtico dell’Isola di Man, il cosiddetto manx.
“Lingue” regionali?
Tra i molti idiomi ricostruiti dall’intelligenza artificiale ci sono anche i dialetti italiani. O meglio, delle lingue regionali. Non troverete infatti il milanese o il palermitano, ma il “lombardo” e il “siciliano”. Una semplificazione forse necessaria, dato che i dialetti spesso cambiano letteralmente da un comune all’altro. Dunque Google ha optato per generare una forma generalmente accettabile della parlata locale, con tutti gli errori del caso. Ma c’è di più. Queste semplificazioni sono deleterie, soprattutto se lo strumento è anche pensato per aiutare le giovani generazioni a conoscere forme di comunicazione in declino.
La prova del ligure: parole e frasi
Proviamo dunque a usare lo strumento di traduzione. Impostiamo la lingua “ligure”, che conosciamo meglio di altre per provenienza geografica, e iniziamo a tradurre. Si parte con esercizi facili: “bambino” diventa giustamente “figgeu”, “zio” si trasforma in “barba”, “un bicchiere di vino” viene tradotto come “un gòtto de vin”. Già qui qualcosa scricchiola, visto che in certe zone della Liguria l’articolo “un” si dice “in” e “gòtto” finisce in “u”, ma poco male.
Il castello di carte crolla però subito, anche su termini banali. “Mamma” viene tradotto come “mamà”. Non sappiamo se a Genova, in maniera formale, sia un termine usato, ma in quasi tutta la regione il termine giusto è “muè”. “Medico” diventa un macheronico “dottô”, quando la parola comunemente impiegata è “mêgu”. E poi ci sono le deviazioni centraliste, che danno per buono il genovese anche se altrove è tutto diverso. Ad esempio, il verbo “agitarsi” viene tradotto per persone che vivono sotto la Lanterna, “fâse agitâ”, mentre a Savona la parola è del tutto diversa: “invexendase”.
La prova del ligure: detti e termini particolari
Ma la prova del nove sono i detti popolari e le parole considerate forse scurrili ed impudiche, ma che fanno parte della cultura parlata. E così il famoso scioglilingua “sciûsciâ e sciorbî no se pêu” (optiamo per la scrittura genovese, anche se altrove le “o” diventano “u”), traducibile come “non si può, al contempo, soffiare e aspirare”, Google lo trasforma in un orrendo “no se peu soffâ e succâ into mæximo tempo”. Segno che l’intelligenza artificiale non si è nemmeno presa la briga di scansionare il web alla ricerca dei modi di dire.
Sui termini popolari riferiti alla sessualità, Translate non perviene. Non li traduce. E così il celeberrimo “belìn”, onnipresente e utilizzato in ogni contesto possibile e immaginabile, non viene tradotto come “pene”, come dovrebbe, ma con un termine che non c’entra nulla: “bellissimo”. Stessa cosa per la controparte femminile, “mussa”, che vuol dire anche “bugia”. Insomma, il tool di Google risulta non solo poco affidabile ma addirittura distruttivo: affidarsi a esso per provare a riavvicinarsi al dialetto rischia di generare nuove non-lingue, centrali ed artificiali, che nulla hanno a che vedere con la ricchezza di mille e più idiomi paesani e comunali. Che non devono sparire correndo dietro alla modernità.