Iran-Israele: come lo Stato Ebraico risponderà agli Ayatollah

Gli occhi del mondo sono puntati su Israele. Alleati e rivali si interrogano su quale sarà la contromossa dello Stato Ebraico all’attacco lanciato dall’Iran la notte tra il 13 e il 14 aprile. Tel Aviv sfrutterà l’occasione per ottenere pedine importanti a Gaza oppure risponderà al fuoco degli Ayatollah provocando un’escalation regionale? Gli scenari restano aperti e, come si usa dire, in Medioriente è sempre tutto possibile.

I retroscena del gabinetto di guerra

Domenica 14 aprile il Gabinetto di guerra israeliano non ha raggiunto una decisione sulla risposta all’attacco iraniano. I cinque ministri del comitato si sono riuniti per tre ore alla Matcal Tower di Tel Aviv, la storica sede del ministero della Difesa ebraico. Sullo sfondo, a pesare come un macigno, le pressioni degli Stati Uniti. Joe Biden è stato perentorio: per Netanyahu è meglio accontentarsi perché se Israele contrattaccherà, Washington non supporterà l’iniziativa.

Secondo il media Israel Hayom, nonostante il mancato accordo, i ministri sarebbero propensi alla ritorsione. Ipotesi confermata anche dall’agenzia Reuters, secondo cui il trio Netanyahu-Gantz-Gallant è d’accordo a una risposta contro Teheran, ma diviso sul quando e sulla portata.

Dalle indiscrezioni è emerso, intanto, un dettaglio sulla riunione convocata la notte dell’attacco. Secondo il Times of Israel, il ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz e il suo collega di partito Gadi Eisenkot avrebbero entrambi proposto di attaccare Teheran tempestivamente mentre l’attacco degli Ayatollah era in corso. All’idea si sarebbero opposti fermamente Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant e il capo delle IDF Herzi Halevi, soprattutto perché attivare la risposta durante la contraerea poteva essere controproduttivo.

Il Gabinetto di guerra israeliano. In ordine, Benjamin Netanyahu, Benny Gantz e Yoav Gallant.

La situazione è rientrata poche ore dopo, quando Israele ha appurato di essersi difeso in maniera più che esemplare limitando al minimo i danni. È in quel momento che arriva il colloquio telefonico tra Biden e Netanyahu e l’idea di una risposta immediata viene messa da parte.

Domenica mattina, emerge una strada alternativa. Il ministro degli esteri Israel Katz ha rilasciato una comunicazione ufficiale in cui ha difeso il diritto di Israele a difendersi e la necessita di punire Teheran. E il prezzo iniziale indicato dal ministro  sarebbe il riconoscimento delle guardie rivoluzionarie come un organizzazione terroristica, insieme a nuove sanzioni, soprattutto sul programma di missili balistici.

La politica israeliana si spacca

Fuori dal gabinetto di guerra la politica israeliana resta spaccata. Da un lato, l’estrema destra decisa a una risposta militare dura. Dall’altro, la sinistra ebraica, convinta che l’attacco dell’Iran sia l’occasione giusta per poter finalmente risolvere le vere priorità di Tel Aviv: il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi.

BenGvir
Ben Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano e leader del partito Otzma Yehudit.

In prima linea nella fazione interventista c’è Ben Gvir, leader del partito Otzma Yehudit (Potere ebraico) e ministro della Sicurezza Nazionale. Si tratta di una delle personalità più controverse del mondo politico israeliano con 50 incriminazioni per incitazione all’odio sul curriculum. «Impressionante la difesa fino a ora. Ma ora deve esserci un attacco violento», ha scritto su X.

Appello ripreso anche da Orit Strock, membro dell’altro partito estremista ebraico, il Religious Zionist Party capitanato dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich: «Con tutta la gratitudine a Dio che ci ha salvato dalle loro mani e con tutti i ringraziamenti alle nostre forze di difesa e ai partner americani, Israele non può entrare in un nuovo status quo, in cui è permesso essere attaccati e non rispondere. A un attacco del genere, non si risponde con la diplomazia. Ma è nostro dovere e diritto attaccare».

Yair Lapid, ex Premier israeliano e leader del partito Yesh Adit.

Di posizione opposta, Yair Lapid, ex primo ministro e leader del partito centrista Yesh Atid (C’è un futuro). La posizione del politico è quella di dare priorità al ritorno dei 133 ostaggi e di adottare «pazienza strategica». Israele non deve farsi trascinare in una risposta che distoglierebbe l’attenzione dalle vere priorità: dare il colpo di grazia ad Hamas e consentire il ritorno a casa dei cittadini rapiti. Questa è la cosa corretta da fare, il tempo per l’Iran arriverà.

Bersagli ipotetici

Rispondere o non rispondere? È questo il dilemma. Quel che è certo, però, è che Israele volesse controbattere allo sciame di droni e missili iraniani di sabato notte potrebbe arrecare notevoli danni al nemico islamico colpendo i suoi impianti di produzione nucleare.

Come ha spiegato John Allen Gay nel libro War with Iran: Political, Military, and Economic Consequences (2013), infatti, i siti nucleari rappresentano il principale target per i rivali di Teheran. In Iran ci sono quattro impianti industriali per l’arricchimento dell’uranio, materiale che in dosi cospicue può essere usato per la produzione della bomba atomica. Queste strutture sono ubicate in diverse città del Paese: Isfahan, Natanza, Fordo e Arak.

La centrale nucleare di Isfahan, dove avviene l’estrazione dell’uranio e la sintesi dell’esafluoruro d’uranio

A Isfahan l’uranio viene estratto dal sottosuolo e trasformato in esafluoruro d’uranio (UF6), un composto chimici meglio lavorabile per la sintesi del combustibile nucleare. In una seconda fase, l’UF6 viene arricchito in centrifughe, collocate a Natanz e Fordo. Questi due siti sono più difficili da raggiungere rispetto a Isfahan, in quanto il primo si trova sottoterra e il secondo in un tunnel scavato nelle viscere di una montagna. Accanto a questa filiera, c’è quella che riguarda l’estrazione e la lavorazione del plutonio. E ad Arak si trova un reattore deputato a questo.

Ma in che modo sarebbe possibile danneggiare questi impianti? Israele dispone di bombe bunker buster, proiettili molto potenti capaci di causare esplosioni in profondità. Rifornendosi di un numero di bombe sufficiente – indicativamente tra cento e le centocinquanta –, l’aviazione israeliana potrebbe arriva a nuocere gravemente al rivale islamico nei suoi hotspot. Conditio sine qua non di questa iniziativa, però, è il supporto americano in termini di rifornimento di carburante. E stando alle ultime dichiarazioni di Washington le probabilità che ciò si verifichi sono al momento esigue.

La macchina della propaganda

Nelle ore successive al raid su Israele, centinaia di iraniani hanno affollato le piazze di Teheran, Qom e Gogan per celebrare l’azione di rappresaglia del regime. “Morte a Israele”, “Morte all’America”. Questi e altri cori di giubilo misto a rabbia hanno riempito l’aria notturna, fino alle prime ore dell’alba. Clima festante anche in Parlamento, dove numerosi politici hanno inneggiato contro lo Stato ebraico. I media filo-governativi hanno diffuso le immagini e i video dei festeggiamenti. In poco tempo, quelle scene hanno raggiunto le homepage dei principali siti d’informazione occidentali. E sono state viste da milioni di utenti in giro per il mondo. Ma in che misura quelle immagini rappresentano l’opinione complessiva del popolo iraniano?

Iraniani celebrano l’attacco su Israele scendendo in piazza e inneggiando cori contro il rivale ebraico

Per rispondere a tale domanda occorre ricordare che in Iran il regime detiene il controllo sulle notizie di politica interna ed estera, mettendo in moto una vera e propria macchina della propaganda. Diversi giornali fungono da megafono per le idee del governo degli ayatollah. Dopo gli attacchi del 13 aprile, i principali mezzi d’informazione iraniani hanno descritto con autocompiacimento l’iniziativa bellica dei Guardiani della rivoluzione. Titoli come “Il regime sta punendo l’aggressore”, “La punizione è dovuta” e “Gli israeliani sono confusi e sbalorditi, non hanno fiducia nel combattere” hanno occupato le homepage dei siti filo-governativi. La sensazione, dunque, è che una parte della popolazione sia andata dietro ai messaggi diffusi dal regime, e abbia occupato le piazze di Teheran, Qom e Gogan per manifestare il proprio allineamento alle scelte della Guida suprema.

La voce del popolo

Un’altra fetta di iraniani, però, ha reagito diversamente. Come riportato da Iran International, molte persone hanno fatto la fila alle stazioni di servizio per fare scorte di benzina. Memori degli anni della guerra contro l’Iraq, infatti, parecchi iraniani sono corsi ai ripari per evitare di ritrovarsi senza gasolio in caso di attacco nemico.

Non solo. Nelle ore successive al lancio di droni e missili su Israele, hanno fatto la loro comparsa sulle bacheche di diversi social frasi come “Il mio paese sta combattendo contro un altro paese e voglio che quel paese vinca”. E non sono mancati hashtag come “Battili, Israele!” e “Grazie, Israele“. In tutta risposta, il corpo delle Guardie rivoluzionarie ha emesso un avviso invitando i cittadini a denunciare qualunque sostegno online a Israele. Per i responsabili di campagna antigovernativa gli ayatollah hanno promesso conseguenze penali.

 

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Conrad, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson.

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