Natale 2021. Charlie Stewart, pensionato di 75 anni, sta trascorrendo una giornata in famiglia giocando a domino. A un certo punto, la moglie Susan, un’ex infermiera specializzata in neurologia, si accorge che Charlie fatica ad accoppiare i punti sulle tessere. Pensa a un problema alla vista, ma pochi mesi dopo la diagnosi la smentisce: Charlie, come racconta il Washington Post, è affetto da atrofia corticale posteriore, una rara malattia neurodegenerativa, definita anche sindrome di Benson, che colpisce prematuramente le parti del cervello coinvolte nei processi visivi e percettivi. Secondo uno studio pubblicato a febbraio 2024 su The Lancet Neurology, potrebbe rappresentare la patologia più predittiva del morbo di Alzheimer. I sintomi, infatti, compaiono in media 5-6 anni prima.
Il team di esperti, guidato dall’Università della California di San Francisco (UCSF), ha analizzato i dati di 1.092 pazienti provenienti da 36 centri in 16 Paesi. Si tratta del campione più ampio e rappresentativo mai delineato in una ricerca sull’atrofia corticale posteriore.
Una patologia difficile da diagnosticare
Diagnosticare questa malattia può essere un percorso a ostacoli. Compare nella letteratura scientifica per la prima volta nel 1988 e, fino al 2017, i medici non utilizzavano criteri comuni per verificare se una persona ne fosse affetta. Lo studio condotto dalla UCSF ha posto l’attenzione sulla necessità di sensibilizzare la comunità medica, migliorando la conoscenza condivisa fra neurologi, centri di prima assistenza, optometristi e oftalmologi. Velocizzare la diagnosi, infatti, «potrebbe avere importanti implicazioni per il trattamento dell’Alzheimer», sottolinea Renaud La Joie, professore del Dipartimento di Neurologia della UCSF.
Dallo studio è emerso che il 94% dei pazienti con la sindrome di Benson è affetto anche dal morbo di Alzheimer. Come spiega Gil Rabinovici, tra gli autori della ricerca e direttore dell’Alzheimer’s Disease Research Center della UCSF, «da un punto di vista clinico, l’atrofia corticale posteriore è probabilmente la seconda manifestazione più comune dell’Alzheimer dopo la perdita di memoria». Stando alle stime degli esperti, infatti, i disturbi alla vista correlati a questa patologia potrebbero insorgere nel 10% dei malati di Alzheimer.
I sintomi
Il domino non è il primo campanello d’allarme per Charlie. Nell’estate del 2020, Susan nota che suo marito fatica a compiere attività semplici come compilare un assegno, calcolare la mancia al ristorante e organizzare gli attrezzi in garage. Il sintomo più comune dell’atrofia corticale posteriore è la difficoltà a leggere, guidare e distinguere tra oggetti fissi e in movimento. Alcuni, come Charlie, possono anche avere problemi a scrivere ed eseguire calcoli matematici. La graduale perdita di memoria, invece, può manifestarsi nelle fasi successive, man mano che la malattia progredisce.
Charlie si sottopone alla prima visita nel 2021. Un optometrista rileva un potenziale deficit alla vista, in particolare al lato sinistro. Chiede un parere a uno specialista della retina, che però è in buone condizioni. Nella maggior parte dei casi, la diagnosi di atrofia corticale posteriore arriva dopo una lunga serie di controlli medici. Il primo dei quali, solitamente, «avviene con un oculista, che certifica come l’occhio, dal punto di vista funzionale, abbia normali capacità», afferma Paolo Nucci, professore di Oftalmologia all’Università Statale di Milano. Nel corso della visita, lo specialista generalmente «capisce subito se le dispercezioni visive sono oculari o neurologiche».
A febbraio 2022, durante uno dei molti accertamenti a cui si è sottoposto, Charlie scopre che potrebbe trattarsi di atrofia corticale posteriore. La diagnosi definitiva arriva nei mesi successivi, quasi due anni dopo la comparsa dei primi segnali preoccupanti. Un ritardo che, come riporta lo studio della UCSF, raggiunge in media i 4 anni e a cui contribuiscono vari fattori. Primo fra tutti, la natura visiva dei sintomi, che porta i medici a escludere inizialmente problemi neurologici.
Stando a quanto emerge dalla ricerca, al momento della prima visita i pazienti affetti da atrofia corticale posteriore presentano uno o più disturbi correlati. Il più frequente, riscontrato nel 61% dei soggetti, è la disprassia costruttiva, che consiste nella difficoltà a compiere attività che richiedono abilità visuo-spaziali. Seguono il deficit di percezione spaziale (49%), la simultanagnosia (48%), ossia l’impossibilità di percepire visivamente più di un oggetto alla volta, l’acalculia (47%) e l’alessìa (43%), cioè l’incapacità di riconoscere le parole scritte. Il secondo fattore che ritarda la diagnosi è l’età in cui si manifestano i sintomi. Secondo gli esperti della UCSF, le persone hanno in media 59 anni alla comparsa dei primi campanelli d’allarme. Il 75% degli individui presi in esame ne ha meno di 65.
Le correlazioni fra atrofia corticale posteriore e Alzheimer
L’insorgenza precoce dell’atrofia corticale posteriore è una delle caratteristiche che la rendono la patologia più predittiva del morbo di Alzheimer, che nel 7% dei malati esordisce tra i 65 e i 74 anni, nel 53% tra i 75 e gli 84 e nel 40% oltre gli 85. Nella maggior parte dei casi, quindi, si può manifestare più di 15 anni dopo rispetto alla sindrome di Benson. Per questo motivo, come precisa Rabinovici, «una migliore comprensione dell’atrofia corticale posteriore è cruciale anche per la comprensione dei processi che guidano l’Alzheimer».
Le correlazioni fra le due patologie, però, non riguardano soltanto i sintomi. Entrambe colpiscono più le donne degli uomini. Nel caso della sindrome di Benson, le donne costituiscono il 60% dei pazienti analizzati dalla UCSF.
Un altro punto in comune ha a che vedere con due proteine presenti nel cervello, la beta-amiloide e la tau. In particolare, la beta-amiloide si accumula fino a formare delle placche, che rappresentano la principale causa dell’Alzheimer. Attraverso la diagnostica per immagini e l’analisi dei biomarcatori nel liquido cerebrospinale, gli studiosi hanno rintracciato questa proteina anche nei pazienti affetti da atrofia corticale posteriore, riscontrando livelli simili a quelli tipici dell’Alzheimer. Le placche, però, si trovano in un’area diversa del cervello e, cioè, nella parte retrostante, responsabile dell’elaborazione delle informazioni visive. Lo stesso vale per i livelli di tau, fondamentale per la stabilizzazione degli assoni neuronali. Il suo eccesso genera dei grovigli neurofibrillari, ammassi di sottili filamenti presenti nel citoscheletro del neurone, la struttura che ne garantisce l’integrità. I ricercatori hanno individuato la proteina tau nel 97% dei soggetti analizzati.
Per questi motivi, i malati di atrofia corticale posteriore potrebbero essere idonei a farmaci anti-amiloide come il lecanemab, approvato negli Stati Uniti dalla Food and Drug Administration a gennaio 2023 e utilizzato per rallentare il declino cognitivo dell’Alzheimer. I pazienti potrebbero sottoporsi anche alle terapie anti-tau, attualmente in fase di sperimentazione.
I possibili trattamenti
A oggi, nessuna delle due patologie ha una cura, ma soltanto trattamenti che possono ritardare il decorso dei sintomi. Alcuni benefici possono derivare dalle terapie occupazionali, ossia attraverso attività manuali e ludiche. Oppure da semplici cambiamenti nella vita quotidiana, come leggere libri con caratteri di maggiori dimensioni, utilizzare una migliore illuminazione in casa e segnalare gradini o spigoli sporgenti.
Charlie ne sa qualcosa di terapie occupazionali. Oggi, a quasi tre anni da quel Natale trascorso a giocare a domino, i suoi sintomi sono peggiorati e hanno compromesso anche la memoria, soprattutto quella a breve termine. Charlie, però, cerca di mantenersi attivo: fa giardinaggio, cammina molto, prova a leggere e si cimenta in giochi come Wordle, il puzzle online in cui al posto dei tasselli colorati ci sono le lettere. Prende un medicinale per il trattamento dell’Alzheimer, che agisce sull’attenzione e sulla memoria. Da dicembre 2023 partecipa anche a uno studio sperimentale che potrebbe ridurre i livelli di proteina tau nel cervello. Ogni 12 settimane riceve un’iniezione, ma non può sapere cosa abbiano messo i medici nella siringa, se il farmaco o un placebo.
Diagnosticare con accuratezza e tempestività l’atrofia corticale posteriore significherebbe poter individuare con largo anticipo i potenziali casi di Alzheimer, i cui primi sintomi potrebbero rivelarsi di natura visiva. Questa patologia, infatti, danneggia le funzioni mnemoniche, percettive e linguistiche, ma alcune alterazioni meno conosciute coinvolgono la vista e, in particolare, la retina. Quest’ultima rappresenta l’unica parte del sistema nervoso osservabile in una persona ancora in vita e, quindi, permetterebbe di individuare i cambiamenti patologici molti anni prima della comparsa dei sintomi. Il che consentirebbe di compiere enormi passi avanti nella ricerca sull’Alzheimer, nel tentativo di ritardare il peggioramento cognitivo prima che gli effetti sul cervello diventino irreversibili.