Il prezzo del cacao cresce, la produzione cala. E chi ne paga il prezzo sono i produttori e i consumatori, mentre la finanza mondiale e l’oligopolio delle grandi aziende continua a speculare sul valore della materia prima. Tuttavia, con la domanda che continua a crescere e l’offerta che cala costantemente per via dell’insostenibilità, finanziaria e ambientale, della filiera, il sistema rischia di crollare. Dietro ai rincari sulle uova di Pasqua, quindi, c’è qualcosa di più. Nascosti dalla carta colorata, sfruttamento delle risorse naturali, dei coltivatori e speculazioni finanziarie sono all’ordine del giorno.
La borsa
Quando si pensa alla produzione del cacao, sicuramente non immaginiamo le campagne belghe o le pianure italiane. Umidità, caldo e niente luce diretta, queste sono le necessità che hanno le piante del cacao per poter crescere. E per questo motivo, Sud America, Asia, ma soprattutto Africa, sono la culla della produzione mondiale. Eppure, nessuno di questi paesi ha potere decisionale sul prezzo di vendita del cacao, fissato dalle borse di Londra e New York. Nessun potere contrattuale, quindi, ma tutto nelle mani di pochi aziende produttrici, quali le americane Mars, Mondelez e l’italiana Ferrero.
Per questa ragione, l’ICCO, International Cocoa Organization, un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1973 dalle Nazioni Unite, sta tendando di cambiare le cose. Provando a creare una borsa del cacao ad Abidjan, citta della Costa d’Avorio, primo Paese esportatore di fave di cacao nel mondo. È particolare, infatti, che il continente leader nella produzione della materia prima non abbia un ruolo sul prezzo di mercato. Che, invece, è soggetto alle speculazioni della finanza occidentale. Nel 2023, infatti, una tonnellata di cacao era venduta dagli africani a 1520 euro e rivenduta dalla borsa di Londra a 5907 euro. Ma oggi la situazione è anche peggiore, con rialzi che superano il 135% da inizio anno.
Pianta africana…
Risalendo alle origini della filiera, si scoprirà che 75 per cento del cacao consumato a livello mondiale viene dall’Africa Occidentale. I Paesi coinvolti nella coltivazione della pianta sono il Camerun, la Nigeria, il Ghana e la Costa d’Avorio. In particolare, la Costa d’Avorio è in testa per tonnellate prodotte: circa 2 milioni all’anno, a fronte di un consumo mondiale pari a circa 5 milioni. Perché proprio in questa zona? Dal punto di vista botanico, la coltura del cacao si sviluppa in aree umide e con un alto tasso di precipitazioni. A garantire la crescita di queste piantagioni, inoltre, è la presenza di foreste con alberi alti e dalla folta chioma. Le cosiddette “piante madri” riparano le colture di cacao dai raggi solari e da agenti atmosferici distruttivi.
In queste condizioni ambientali, dunque, può crescere il Theobroma cacao, ossia “il cibo degli dei”. Un alimento prezioso, che si sviluppa all’interno di cabosse (i veri e propri frutti della pianta) per un periodo di tempo compreso tra i 7 e gli 8 anni. Le fave mature vengono raccolte a mano e con estrema delicatezza, in modo da non deteriorare la struttura del vegetale. Per via delle caratteristiche della coltura, dunque, l’automatizzazione del raccolto risulta un’ipotesi molto distante dalla realtà. A ciò si aggiunge il sostanziale disinteresse dei principali produttori del settore ad apportare delle innovazioni tecnologiche. Di fatto, per ridurre le spese produttive e ottenere più alti margini di incassi economici, i governi locali e le grandi multinazionali coinvolte affidano i processi di raccolta e stoccaggio a piccoli contadini e, in alcuni casi, anche a bambini.
…barretta occidentale
A complicare le cose per i lavoratori del cacao, sottoposti a un vero e proprio sfruttamento, si aggiunge il ruolo dei paesi occidentali, principali consumatori del prodotto finito. A riguardo, è impressionante il confronto tra la situazione nei paesi del Nord del mondo e paesi in via di sviluppo: gli europei consumano circa il 48 per cento del cioccolato prodotto globalmente e gli statunitensi il 20 per cento; per gli africani, invece, il cacao e i suoi derivati rappresenta solo il 3 per cento dei consumi medi. Questo sfasamento ha avuto un forte impatto sul prezzo d’acquisto della materia prima: per decenni, infatti, i grandi compratori occidentali hanno imposto un abbattimento del costo del cacao ai loro fornitori africani.
Prezzi bassi, però, significano scarsa sostenibilità. Ciò si riflette sull’obsolescenza dei mezzi produttivi, oltre che sulle difficoltà a tutelare le piantagioni dai danni connessi a malattie e dissesti climatici. Ed è quello che è accaduto lo scorso autunno. Prima, l’ondata di maltempo che ha causato perdite rilevanti al raccolto. Poi, l’eccesso di umidità per effetto di El Niño (un fenomeno climatico che porta a un aumento della temperatura degli oceani Pacifico e Atlantico) ha aumentato le probabilità di malattia per le piante. Con la riduzione della materia prima, il rialzo dei prezzi sarà inevitabile, considerando che le conseguenze di questi danni intaccheranno la produzione del prossimo anno. A farne le spese, questa volta, saranno anche i grandi gruppi occidentali coinvolti nella lavorazione e nella vendita del cioccolato, che vedranno cadere a picco i loro profitti.