Il “Caio Duilio”, la nave italiana impegnata nella difesa dei traffici navali nel Mar Rosso, continua a abbattere droni Houthi. Dopo averne distrutto uno la settimana scorsa, nella notte tra 11 e 12 marzo il cacciatorpediniere italiano ne ha colpiti altri due. Eppure dall’unità non è ancora decollato un singolo missile. Com’è possibile che l’azione della Marina Militare sia così chirurgica e efficiente? Il segreto, per quanto antiquato possa sembrare, è un cannone.
Un cannone-mitragliatore
Presenza quasi costante sulle navi della Marina Militare, il cannone OTO 76/62 è un’eccezione in un mondo che cambia. Piccola, leggera, potente e altamente tecnologica, quest’arma apparentemente anacronistica è un gioiellino di ingegneria. La produce Leonardo (ex-Finmeccanica), l’azienda italiana colosso della Difesa. All’apparenza il “76”, come è gergalmente chiamato da utilizzatori e appassionati, è un cannone navale come tanti. Torretta a tenuta stagna, caricatore automatico rotante al di sotto dell’arma effettiva, bocca da fuoco. Ma le particolarità di quest’arma sono almeno due: il calibro e il volume di fuoco.
“76”, più che il nome, è proprio la dimensione dei proiettili, il loro diametro in millimetri. Un numero assolutamente medio-basso, in un panorama marittimo dove i cannoni si aggirano oltre i 100 millimetri (127 nei paesi NATO, 130 in quelli ex-sovietici o a trazione cinese, 113 in quelli con tradizioni militari di derivazione britannica, 100 in Francia) se destinati a colpire obiettivi terrestri o navali, o attorno ai 40 (30 o 57, di solito) per le armi leggere contraeree. L’impianto di casa Leonardo sta nel mezzo, anche come ruolo: è studiato per la difesa contro bersagli dal cielo (dagli aerei ai missili), ma anche per dare molto fastidio a quelli di superficie. Un tuttofare.
Ma come può un cannone di calibro medio inseguire e colpire aerei e missili che manovrano ad alta velocità e in maniere imprevedibili? Già è difficile per normali armi antiaeree di piccolo calibro, figuriamoci per proiettili da 76 millimetri di diametro e tre chili di peso. La risposta è proprio la velocità: il 76/62 di Leonardo è in grado di sparare 120 colpi al minuto. Due al secondo. Una mitragliatrice, in pratica. Solo che una mitragliatrice, di norma, spara proiettili con un diametro di 7,62 millimetri. Dieci volte più piccoli. E, soprattutto, che non esplodono quando colpiscono il bersaglio.
Un’arma di altri tempi
Come è immaginabile, in un’era in cui soprattutto la difesa aerea appare delegata ai missili (le cronache quotidiane dall’Ucraina e dal Medio Oriente ce lo dimostrano), un cannone appare una scelta vetusta per questo ruolo. E in effetti il “76” ha i suoi anni. Nato dalle necessità della ricostituita Marina Militare Italiana nel secondo dopoguerra, il sistema d’arma inizialmente aveva un ruolo preciso: equipaggiare le unità leggere di superficie (come fregate e corvette), troppo piccole per ospitare bocche da fuoco più grandi.
Erano altri tempi, l’artiglieria era ancora il fulcro della guerra navale, i missili in Italia non erano ancora contemplati e la difesa aerea era ancora affidata a mitragliere sviluppate durante la guerra. La OTO-Melara, tradizionalmente responsabile dell’armamento della nostra flotta, prese un cannone americano, fornito da Washington con gli aiuti militari, e lo modificò. I primi tentativi non andarono benissimo: l’idea di dare al nuovo pezzo un duplice uso spinse l’azienda a replicare la formula tipica delle armi contraeree, usando due cannoni uniti insieme. Il primo “76”, denominato “Sovrapposto”, non fece faville. Non piacque. Come non piacque la versione a canna singola, ancora del tutto manuale (nel caricamento, nel puntamento e nello sparo).
Il successo
OTO-Melara ci riprovò e, nel 1962, consegnò il primo 76 “Allargato”. La nuova versione, che aveva spazio per un marinaio che assistesse al puntamento, era radicalmente cambiata. Caricamento e sparo erano automatici, oltre che velocizzati, e il cannone poteva esplodere fino a un colpo al secondo. Questa variante piacque molto, al punto che la Marina ne ordinò 84 esemplari e li installò su navi di ogni genere, dai grandi incrociatori alle unità logistiche.
Sul finire degli anni ’60 l’azienda, resasi conto di avere ampi spazi di miglioramento, presentò una nuova versione, il 76/62 “Compatto”. Come il nome suggerisce, le dimensioni dell’arma si ridussero parecchio. Installato in una nuova cupola, bassa e liscia, il cannone aumentò il volume di fuoco: fino a 85 colpi al minuto. Nella nuova configurazione, il “76” era ormai autonomo: nessun uomo all’interno, il puntamento garantito da un radar appositamente installato sulla nave.
La scommessa di OTO-Melara venne vinta. Nel giro di pochi anni gli ordini aumentarono a dismisura. E non solo in Italia. Stati Uniti, Germania, Spagna, ma anche Giappone, Corea del Sud, Indonesia. Il cannone italiano piaceva a tutti. Costava poco, era efficientissimo, versatile e compatibile con tutti i sistemi elettronici possibili. Da allora la sua avanzata non si è più fermata e oggi, con le nuove versioni “SuperRapido” (120 colpi al minuto), “Strales/DART” (più dedicato alla difesa aerea e antimissile, con un nuovo radar e munizioni speciali) e “Sovraponte” (con i proiettili spostati nella torretta, che diventa così più leggera e installabile anche in spazi ridotti), equipaggia le Marine di 54 Paesi del mondo.
Perché funziona
Il grande vantaggio del “76” è proprio la sua natura “media”. Sa fare le stesse cose di un grosso calibro (anche se non con la stessa capacità distruttiva) con la velocità e la versatilità di un piccolo calibro. In particolare nel compito antiaereo e antimissile. Molte Marine impiegano grossi cannoni da 127 millimetri per i bersagli navali e, all’occorrenza, aerei. Ma sono armi lente, tanto a sparare quanto a puntare. Vanno bene contro elicotteri, ma non contro caccia o missili. Al contrario, le cannoniere da 30 millimetri, diffusissime per la “difesa di punto”, vanno bene solo come contraerea. Il “76” sa fare entrambe le cose, saturando un’area ridotta con molti proiettili (che, a loro volta, esplodono rilasciando centinaia di frammenti letali in una zona ancora più ampia) fino a una distanza di due miglia nautiche (quattro chilometri circa).
E sa farlo con grande risparmio. Prendiamo il caso dei due droni Houthi abbattuti dal “Duilio”. Si tratta di ordigni molto economici, con un costo unitario inferiore ai mille dollari. Qualunque altra marina avrebbe ingaggiato i bersagli con missili antiaerei (come fanno in Mar Rosso americani, francesi, inglesi e tedeschi). Se lo avesse fatto anche il nostro cacciatorpediniere, l’Italia avrebbe speso circa due milioni di euro: questo il prezzo di due intercettori Aster 30, quelli impiegati dalla nostra Marina. Ma il “Duilio” ha ben tre “76”, tutti nella modernissima versione “Strales”. Ciascuno con 82 proiettili. Ognuno dei quali (in versione base) costa circa mille euro. Per abbattere un drone ne sono serviti tre o quattro. Con un risparmio economico notevole. È questo il segreto del successo. In un’epoca di armi iper-sofisticate e costosissime, il vecchio “76” è una soluzione economica ed efficiente. In alcuni casi, anche più dei competitor più moderni.