Roma, oltre a essere la Capitale d’Italia, è un pozzo di storia senza fondo. Dai tempi di Giulio Cesare fino ai giorni d’oggi, non ha mai smesso di attirare visitatori da tutto il mondo. Forse perché affascinati dalle rovine di un tempo quasi mitico, dove gli abitanti parlavano ancora latino e dove le persone credevano davvero agli dei. Forse perché, come insegna lo stesso Omero, solo tornando alle proprie origini ci si sente veramente a casa.
Raccontare la storia antica non è un mestiere per tutti. Solo in pochi sono in grado di farlo con la stessa semplicità di chi legge la favola della buonanotte ai propri figli. E Cristoforo Gorno è uno di questi. Prima con Cronache dall’Antichità, poi con Cronache dall’impero e ora con Cronache di terra e di mare si è fatto strada nel pantheon dei migliori divulgatori storici del nostro Paese. Anche se, come spesso accade, non se lo sarebbe mai aspettato.
Com’è diventato divulgatore storico?
Preferisce scrivere romanzi storici o realizzare puntate televisive?
Entrambi mi divertono molto. Per me fare programmi televisivi è molto più facile perché ho iniziato nel 1992. Quindi sono più di 30 anni che faccio questo mestiere. Di romanzi storici, invece, ne ho scritti solo due: “La spia celeste” e “Io sono Cesare. Memorie di un giocatore d’azzardo”. Perciò non ho la stessa confidenza: devo ragionarci di più.
Come prepara le puntate?
Come cambia il modo di comunicare da un romanzo a un programma televisivo?
Penso di aver collaudato nel corso del tempo una mia scrittura, un mio stile. È fatto di frasi asciutte, di un utilizzo di aggettivi minimo, di pochissime subordinate. Ed è lo stesso che ho un po’ applicato ai miei romanzi storici. Nell’autobiografia di Cesare è stato più facile perché anche il dittatore usava, in un certo senso, lo stesso tipo di scrittura. Quindi è stato semplice immedesimarmi.
É Giulio Cesare il personaggio storico che l’ha più influenzata?
Quali sono i suoi progetti futuri?
Mi piacerebbe fare l’Iliade e l’Odissea e poi potrei anche smettere. Per me sarebbe una soddisfazione perché Omero è il massimo. È la parola che esce dal silenzio. È la prima testimonianza artistica di questa nostra parte del mondo. Ogni tanto mi soffermo a pensare che la prima parola della prima opera della nostra letteratura è “menis”, che alcuni traducono come “’ira”. Cantami oh diva l’ira funesta del pelide Achille. Però menis è più di ira: è la perdita di senno, è la ragione che salta. E se penso a quello che stiamo vivendo oggi in giro per il mondo, l’idea che la prima parola della prima opera della nostra storia sia quella mi fa credere che oggi siamo di nuovo vittime di quella menis. Ma la perdita di senno non porta a nulla di buono. Perché sì, i greci conquistano Troia. Ma muoiono anche loro. E comunque il loro mondo è destinato a sparire poco dopo. Non è il caso di cedere alla menis.