di Federica Liparoti
Il killer di Budrio. Il branco di Alatri. Il delitto di Bagheria. Chi ha seguito queste cronache in tv o sui giornali avrà pensato che negli ultimi tempi la violenza abbia raggiunto i livelli più alti di sempre. In realtà le cose non stanno così, per fortuna è vero esattamente l’opposto.
“Dal 1864 a oggi il tasso di omicidi per centomila abitanti è costantemente diminuito, con sole tre inversioni di tendenza: nel primo e secondo dopoguerra, e nel periodo compreso tra il 1969 e il ’91” spiega Marzio Barbagli, docente di sociologia dell’Università di Bologna e autore dell’indagine multiscopo sulla Sicurezza delle donne condotta dall’ISTAT presentata il 28 marzo scorso. “Si tratta di dati comuni a tutto l’Occidente, con la differenza che l’Italia per molto tempo ha avuto un tasso di omicidi più alto rispetto agli altri Paesi occidentali. Ora non è più così, il nostro Paese è nella media europea. Questa tendenza viene interpretata dagli studiosi come l’effetto dell’affermazione dello Stato quale istituzione che monopolizza l’uso della forza. Anche i dati italiani possono essere interpretati così. Non bisogna confondere la sfiducia nella classe politica, che certamente è molto diffusa, con la sfiducia nello Stato”.
Sempre meno omicidi in Italia, quindi. “Basti pensare – sottolinea Barbagli – che il 2015 è stato l’anno con il tasso d’omicidi più basso degli ultimi cinque secoli”. E in soli quindici anni si è passati dagli oltre 1900 casi del 2000, ai 460 del 2015: una diminuzione di circa il 75 per cento.
Un’ottima notizia, che solo pochi osservatori però hanno preso sul serio. “Si tratta di uno straordinario cambiamento che dovrebbe rimettere in discussione idee molto diffuse nell’opinione pubblica” – spiega lo studioso – “Sebbene l’idea che la società italiana sia dominata dalla violenza non trovi riscontro nei dati, viene alimentata continuamente dai mezzi di comunicazione di massa, che non smettono di rifarsi al principio secondo cui ‘if it bleeds, it leads’, ovvero se c’è sangue, suscita interesse, fa notizia. Ed è un’idea talmente radicata che chi la condivide accoglie con scetticismo, se non con una punta d’irritazione, ogni notizia che tenda a smentirla”.
In questo panorama positivo, però c’è un dato preoccupante. Continua la diminuzione degli omicidi, ma non nel caso delle donne vittime dei partner, o degli ex. Il calo degli omicidi, infatti, ha riguardato soprattutto gli uomini. Il tasso è diminuito da circa 4 a 1 omicidio ogni 100mila maschi; lo stesso dato per le femmine è passato dagli anni ’90 al 2015 da 0,8 a 0,5.
In altri termini, gli omicidi contro le donne non diminuiscono in misura significativa. Anzi, negli ultimi quindici anni il numero dei femminicidi è rimasto pressoché costante.
A fronte di un calo di tre quarti del numero degli omicidi, nell’ultimo quindicennio i femminicidi sono diminuiti solo di un quarto.
Dai dati del Ministero dell’Interno emerge anche che nel 2015 gli omicidi delle donne sono avvenuti nel 54,7% dei casi nella dimensione familiare o di coppia contro il 3,4% degli uomini. Al contrario, più del 70% degli uomini sono stati uccisi da uno sconosciuto o da un autore non identificato dalle forze dell’ordine, contro il 14,2 delle donne. Questa diversità evidenzia da un lato il successo delle politiche di sicurezza e contro il crimine organizzato, di cui sono vittime prevalentemente gli uomini, dall’altro la persistente gravità della situazione relativa al contesto familiare in cui avvengono i femminicidi, nonostante i recenti interventi legislativi sul tema.
“Va parecchio di moda usare il termine femminicidio: a cadenze regolari, giornali e televisioni fanno ricorso a questa parola per descrivere l’uccisione di donne per mano di uomini e, fin troppo spesso, per ragioni sentimentali” – spiega Francesco Trapella, ricercatore di diritto processuale penale all’Università di Ferrara – “Al contrario di quello che pensa l’opinione pubblica, non esiste nel nostro ordinamento giuridico il reato di femminicidio. Si tratta di un vocabolo privo di uno specifico significato giuridico. Il termine non compare in nessuno dei provvedimenti che, dal 2013 a oggi, si sono susseguiti nel tentativo di arginare la violenza di genere. Si parla di donne, di relazioni sentimentali pregresse, di violenza di genere, di vittime deboli, ma non viene mai impiegato il termine femminicidio o uno dei suoi derivati”. Eppure, nel 2013 i media avevano annunciato l’approvazione del decreto legge anti-femminicidio . “In realtà, quel provvedimento conteneva, cito letteralmente, disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province. A parte la discutibile scelta di accostare temi diversi come violenza di genere, protezione civile e amministrazione provinciale, non si parla di femminicidio”.
Quindi, nonostante il clamore mediatico e l’attenzione dell’opinione pubblica i femminicidi, all’atto in pratico, sono puniti come gli omicidi comuni? “Il nostro sistema normativo prevede delle aggravanti se l’omicidio nasce in ambito famigliare oppure se tra vittima e carnefice c’è o c’è stata una relazione sentimentale, indipendentemente dal sesso della persona uccisa”.
L’introduzione di uno specifico reato di femminicidio potrebbe contribuire a ridurre il numero di donne uccise ogni anno nel nostro paese? “L’introduzione di nuovi reati a spot per assecondare emergenze avvertite dall’opinione pubblica, com’è avvenuto di recente con l’omicidio stradale, è il più delle volte inutile. Le regole ci sono già. Spesso, il femminicidio è l’ultimo atto di una lunga serie di violenze. Per questo durante le indagini e il processo dovremmo proteggere di più le donne che trovano la forza di denunciare i loro aggressori”. In che modo? “Ad esempio, nel 2011 l’UE ha emanato una direttiva sull’ordine di protezione europeo. Si tratta di un meccanismo diretto a favorire il reciproco riconoscimento dei provvedimenti che, negli Stati Europei, applicano misure a tutela della vittima, sia effettiva, che potenziale. Il legislatore italiano però ha attuato male questo strumento, limitando la sua applicazione alle sole misure dell’allontanamento dalla casa familiare e al divieto di frequentare i luoghi della vittima. In altri termini, se in un contesto di violenza domestica, un giudice italiano voglia applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari, magari in una casa famiglia, a un uomo accusato di maltrattamenti che sia fuggito all’estero, non potrebbe emettere un ordine di protezione europeo”. I giudici italiani hanno le armi spuntante, le tutele delle vittime sono frammentarie. E intanto le donne continuano a essere uccise.