Testo e video di Federica Liparoti
Fino a due anni fa era un’area piena di rovi e rifiuti tra Via Padova, la linea ferroviaria e la rimessa dell’ATM. Un angolo della periferia di Milano abbandonato per più di venticinque anni, finché un gruppo di cittadini l’ha adottato e trasformato in un orto condiviso di duemila metri quadri, luogo di agricoltura biologica, ma anche di eventi e socialità.
Quello degli orti condivisi è un fenomeno nato a New York alla fine degli anni ’60, che ha preso piede in metropoli come Parigi, Londra e Berlino. A Milano oggi sono tredici e lo spirito che li anima è ben diverso dai tradizionali orti comunali. “Si tratta di uno spazio in cui le persone coltivano insieme e dividono i frutti del raccolto”, spiega Franco Beccari di Legambiente, coordinatore del progetto, “a Milano abbiamo iniziato nel 2009 al Parco Trotter. Quell’orto è stato il seme di un percorso che ha unito molte persone”. Poi è arrivata la delibera comunale del 2012 che prevede che un gruppo di cittadini possa richiedere al Consiglio di Zona un terreno abbandonato, o poco utilizzato, per realizzare un orto condiviso. L’amministrazione si impegna in una pulizia “di massima” – non vengono fatte analisi del terreno – e si può coltivare solo in cassoni con terra riportata. Viene inoltre richiesto di utilizzare un metodo biologico.
Come spiegano i pionieri dell’American Community Gardening Association di New York, i giardini comunitari sono appezzamenti di terreno coltivati collettivamente da un gruppo di persone. Il loro scopo non consiste solo nel fornire frutta e verdura fresca, promuovere il consumo diretto di alimenti e incoraggiare il consumo di prodotti a filiera corta, ma anche nel migliorare il senso di comunità di un quartiere. Si tratta di un fattore essenziale perché le periferie urbane siano vivibili e sicure.
Lo aveva già intuito la grande studiosa della vita urbana Jane Jacobs che nel ‘61 pubblica uno studio sul funzionamento concreto delle città nella vita reale. Viene individuata, quale caratteristica fondamentale di un quartiere urbano efficiente, che chiunque per strada si senta personalmente al sicuro. La sicurezza delle strade e dei marciapiedi non è mantenuta principalmente dalla polizia – sottolinea Jacobs – ma da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate, fatte osservare dagli abitanti stessi. Le zone urbane in cui il mantenimento dell’ordine pubblico e della legalità è affidato alla polizia sono vere giungle, perché le forze dell’ordine non sono, da sole, in grado di garantire la convivenza civile quando vengono a mancare i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. La Jacobs individua nel “capitale sociale”, inteso come insieme di relazioni sociali informali sviluppate nel quartiere, la risorsa fondamentale che determina il funzionamento di quei meccanismi attraverso i quali la società ottiene dai cittadini l’osservanza delle sue norme.
“A Milano i reati sono diminuiti del 5% rispetto all’anno scorso” – spiega Roberto Cornelli, docente di criminologia dell’Università Bicocca – “si tratta di un dato in linea con la tendenziale diminuzione di omicidi e furti negli ultimi vent’anni. Come rileva lo stesso ISTAT, nonostante la criminalità e la sicurezza siano state nel corso degli ultimi due decenni una delle maggiori preoccupazioni dei cittadini, in quest’arco temporale si è registrata una significativa riduzione dei reati denunciati più gravi”. Come rendere allora le nostre città e le nostre periferie più vivibili e sicure? Uno studio pubblicato sul Journal of Community Psychology condotto da Daniel J. Kruger, docente di psicologia sociale dell’Università del Michigan, ha messo in evidenza che la paura del crimine non nasce da una valutazione realistica del rischio di subire aggressioni, ma dalle peculiarità e dalle relazioni sociali del quartiere.
Kruger e il suo staff hanno comparato i dati raccolti attraverso un migliaio d’interviste telefoniche realizzate a Flint – una città sui 100.000 abitanti del Midwest – con i dati sulle aggressioni, i cui tassi sono stati elaborati basandosi sulle cifre fornite dagli ospedali della zona. Hanno potuto verificare che la paura del crimine è effettivamente proporzionale al tasso di reati del quartiere in cui si vive, ma anche altre variabili influiscono, primo fra tutti il senso civico percepito nel quartiere. “Gli intervistati che partecipano alle attività di community garden o di crime watch percepiscono un maggiore senso di comunità nel proprio quartiere” – spiega Kruger – “promuovere questo tipo di attività può far sentire più sicuri gli abitanti di un quartiere. Si tratta di un obiettivo di particolare importanza poiché un elevato timore del crimine ha effetti negativi sulla salute dell’individuo e modifica, limitandole, le abitudini delle persone, determinando così un peggioramento delle condizioni di vita”.
Obiettivo raggiunto in Via Padova, a Milano, che oggi è più vivibile. “Agli Orti di Via Padova siamo una quarantina di coltivatori, una quindicina sempre presenti. Tutte le settimane dividiamo tra noi il raccolto, in base al lavoro svolto” – spiega Beccari – “per le spese abbiamo una cassa comune. Quest’anno abbiamo lanciato l’iniziativa ’adotta una zolla’. A chi ci farà una piccola donazione offriremo gli ortaggi che coltiviamo.” Conclude poi: “l’importante in un orto comunitario non è coltivare peperoni, ma rapporti sociali”.