“Innanzi tutto, l’emozione. Soltanto dopo, la comprensione”. E’ questo quello che raccomanderebbe Paul Gauguin a ogni visitatore che si appresti a varcare la soglia del Mudec, il Museo delle Culture di Milano, che dal 28 ottobre ospita la mostra “Gauguin. Racconti dal Paradiso”. Nessuna audioguida, nessun manuale prêt-à-porter. Una volta arrivati al secondo piano e oltrepassata la porta, per comprendere le 70 opere esposte, provenienti da 12 musei e collezioni private internazionali, basterebbe dare libero sfogo alle impressioni. Che siano pennellate di luce e colore su un “Nudo di donna che cuce”, o armoniche sinergie sul caldo volto di una “Donna tahitiana con fiore”, poco importa. Ogni tela, ogni sguardo, ogni paesaggio, ogni scultura, rievoca un’emozione.
La sensazione è quella di camminare in punta di piedi sulla vita di Gauguin. Un pittore senza radici proprie, perennemente in viaggio non tanto per un bisogno di evadere verso luoghi incontaminati, quanto per il desiderio di ritrovare sé stesso e la propria arte in uno stato primitivo di legame con la natura. Contemplando le sue opere si ha come l’impressione di vagabondare in giro per il mondo. Si può spaziare dall’arte popolare della Bretagna francese a quella dell’antico Egitto, da quella peruviana delle culture Inca fino all’arte, alla vita e alla cultura polinesiana. Dipinti, acquerelli, sculture e incisioni diventano allora vere e proprie cartoline di viaggio, preziose testimonianze di momenti che per Gauguin significavano evasione dalla contemporaneità, ricerca di un mondo altro e incontaminato. Ed è proprio attraverso il confronto tra i capolavori di Gauguin e le sue fonti d’ispirazione che si riesce a cogliere il suo graduale approccio al “primitivismo”.
Questo percorso di scoperta nell’immaginario dell’artista si articola in cinque sezioni. Tra le opere esposte, 35 provengono dal museo NY Carlsberg Glyptotek di Copenhagen. Una in particolare, “Vahine no te Tiare (Donna con fiore)”, viene considerata l’opera ambasciatrice dell’arte gaugueniana made in Polinesia. L’esposizione vanta anche la presenza di due prestiti eccezionali: “Autoritratto con Cristo Giallo” del Musèe d’Orsay di Parigi, manifesto della sofferenza e della lotta dell’artista per l’affermazione della propria visione artistica, e “Mahana no atua (Giorno di Dio)” dell’Art Institute of Chicago.
Il viaggio ai confini dell’arte di Gauguin è così suddiviso: c’è una prima sezione, che fa da “Introduzione” della mostra e si serve di un autoritratto di Paul Gauguin per introdurre la sua figura all’interno del contesto storico e culturale francese di fine Ottocento. Segue poi la seconda sezione, dove comincia già a farsi viva l’ossessione di Gauguin per la cultura primitiva, che si traduce in “Le visioni di Gauguin e il concetto di primitivo”. Ecco che allora si parte dall’impressionismo di una “Natura morta con fiori” per giungere in fretta a quel senso di primitivo che, attenzione, per Gauguin non ha inizio con il suo soggiorno a Tahiti, ma nasce fondamentalmente da un desiderio di autenticità e verità dell’arte. Qualche passo in avanti e ci si imbatte nella terza sezione, dedicata ai “I viaggi di Gauguin, reali e immaginari”, dove si trovano esposti lavori chiave realizzati durante i viaggi in Bretagna (1886‐1888), Danimarca (1884‐85), a Parigi e ad Arles (1888‐89), quali ad esempio “Pascoli alla Martinica”, “Paesaggio costiero della Martinica” e “Ragazza bretone”.
Sarebbe una follia pensare di comprendere per bene tutti i mondi di Gauguin, perché questi si trovano ovunque, e da nessuna parte. Le sue fonti d’ispirazione sono infatti così ricche e varie che sarebbe impossibile cercare di rintracciarle tutte, sarebbe come cercare l’ago in un pagliaio. Gauguin parte, torna, osserva, vive, crea. E dai dipinti tutto ciò traspare. Tra quelle pennellate di colore, tra quelle piccole sfaccettature multiformi si legge una continua sperimentazione, una tendenza a mettere continuamente in discussione la tradizione. A dirlo è anche lo scrittore, regista e attore Filippo Timi che, attraverso un video proiettato sulla parete di una piccola saletta ricavata all’interno dell’allestimento, racconta ai visitatori l’animo in fieri di uno dei più grandi maestri della pittura francese.
Proseguendo il cammino e scostando la tendina nera che divide le due sale dell’esposizione, ci si immerge nella quarta sezione, probabilmente la più sensazionale e significativa: “i dipinti di Gauguin: tecnica e visione”. A renderla tale sono le due tele “Veliero alla luce della luna” e “Donne tahitiane sdraiate”; la prima poco illuminata e di conseguenza poco valorizzata, la seconda, anche. Infine si giunge alla quinta e ultima sezione, “Il primitivo come credo artistico”. Qui ci si può divertire ad esplorare tra mito, fantasia, sogno e realtà. C’è la Polinesia, ci sono i suoi soggetti esotici, c’è la loro verginità, sorgente sicura di ispirazioni primigenie che trova il suo massimo splendore nella danza delle giovani tahitiane in “L’upa upa”. A far da corollario la Volpini Suite, un catalogo in miniatura delle opere principali di Gauguin. Qui bisogna alzare lo sguardo alle 10 zincografie prestate dallo Statens Museum for Kunst di Copenhagen e sfogliare quello che viene considerato un manifesto delle idee fondamentali dell’artista.
Se da un lato però tutte queste opere risultano magistralmente apprezzabili e significative, lo stesso non si può assolutamente dire dell’allestimento dell’esposizione. La sala è cupa, le tele sono disposte in maniera poco coerente rispetto a quanto previsto dalla suddivisione delle sezioni e si fa seriamente fatica a leggere le didascalie. Il tutto risulta confuso, poco valorizzato. Nell’attesa che magari prima della fine della mostra – prevista per il 21 febbraio – qualcuno provveda anche a illuminarla, non resta che spalancare le palpebre e ammirare la mano di chi ha saputo fare anche del più selvaggio un’opera d’arte.
Servizio di Alessandra Parla