Istat, aumentano gli italiani che non vanno mai a messa

di Michela Cattaneo Giussani

la messa è sospesa

“La messa è sospesa per mancanza di fedeli”. È il cartello, con tanto di numero di telefono, affisso davanti al portoncino della chiesa di Sant’Erasmo, una piccola isola della laguna di Venezia. A metterlo, in occasione della Santa Pasqua, è stato il parroco don Mario Sgorlon che ha deciso di tener messa solo “su prenotazione” dei propri concittadini, per non ritrovarsi solo all’altare. Ma se quello di Venezia è un caso limite, l’allontanamento dalle tradizioni ecclesiastiche, invece, è una trend in continua crescita. Da anni, uno dopo l’altro, gli italiani stanno abbandonando la chiesa. Lo dicono le ultime rilevazioni Istat sulla partecipazione sociale alla pratica religiosa, che fanno riferimento al 2016.

Nel 2007 il 18,2% di persone dai sei anni in su, non partecipava mai a riti religiosi. Nel 2016 quello stesso numero è salito al 22,7%. Scende al minimo storico la percentuale di coloro che partecipano ai riti religiosi almeno una volta a settimana: nel 2007 erano il 33,4%, oggi sono il 27,5%. “Rispetto alla pratica reale – commenta Massimo Introvigne, sociologo e direttore del Censur – non esistono in Italia, che io sappia, studi diacronici attendibili e non vale l’obiezione che se scende la pratica dichiarata scende anche la pratica reale perché studi stranieri dimostrano che non è così e le due variabili sono indipendenti”. Per Introvigne, quindi, le analisi per età, titolo di studio, genere, regione dei dati Istat sono interessanti “solo come analisi di che cosa uno è più tentato di dire a un intervistatore”, ma non dicono gran che della pratica reale.

Mentre nel mondo in genere il numero di persone che frequentano riti religiosi è in aumento, a causa in particolare del passaggio da una religiosità informale a religioni strutturate come il cristianesimo o l’Islam in Africa e in Asia e della crescita delle persone che frequentano riti religiosi in Cina, spiega Introvigne, “a mano a mano che si allenta la stretta ostile dello Stato, questo numero rimane stabile negli Stati Uniti e in America Latina” e decresce in Europa Occidentale, Canada, Australia-Nuova Zelanda. “Si potrebbe anche prevedere che decresca ancora – precisa Introvigne – perché le nuove generazioni sono meno praticanti delle precedenti. In parte questo è sempre successo: giovani non praticanti si trasformeranno un giorno in anziani praticanti. Ma i numeri attuali lasciamo prevedere che molti nelle chiese non ci torneranno più”.

Ci sono altri due dati che farebbero prevedere nel lungo periodo un aumento della frequenza ai riti religiosi, anche in Italia. “Il primo – spiega Introvigne – è la percentuale sempre maggiore di immigrati, i quali sono in genere più praticanti degli indigeni, e parlo non solo dei musulmani ma anche dei cristiani (che, anche se pochi lo sanno, sono il 52% degli immigrati in Italia)”. Il secondo, decisivo, è la demografia: “Tutte le statistiche – continua il direttore del Censur – ci dicono che più le persone sono praticanti più fanno figli. Gli atei non crescono da cinquant’anni in Occidente principalmente per un motivo demografico: sono il gruppo “religioso” che fa meno figli. I musulmani praticanti, gli ebrei ortodossi, i protestanti pentecostali, i Mormoni, i Testimoni di Geova, i cattolici membri di movimenti sono invece i gruppi più prolifici”.

Il fatto che in un’area geografica, minoritaria rispetto al mondo ma che comprende l’Italia, la pratica religiosa probabilmente diminuisca, per il sociologo, “non significa che diminuisca la credenza religiosa o spirituale”. Al contrario,” rimane stabile ma si manifesta principalmente in forme di spiritualità privata”, tra cui: credenze nella reincarnazione, nella magia, nel New Age, nell’astrologia ma anche nel potere della preghiera alla Madonna o a Padre Pio fatta in casa propria senza andare a Messa, che non comportano la partecipazione a riti religiosi. “L’ateismo – conclude – ha visto le sue speranze deluse: anche in quella piccola parte di mondo dove diminuiscono i praticanti delle religioni istituzionali, gli atei non crescono o crescono poco”.

Il centro-nord risulta generalmente molto meno religioso del sud: Toscana (35,2%), Liguria (34,7%) e Emilia Romagna (31,2%) sono sul podio per il maggior numero di persone che non partecipano mai a riti ecclesiastici.

La Campania, invece, con il 35,6% è la regione dove si registra la maggior percentuale di chi si reca in chiesa almeno una volta a settimana, seguita dal Molise con il 33,6%. Perde quota la Sicilia che nel 2015 era la prima regione con il 37, 3%, mentre per il 2016 si ferma al 33,4%.

 

 

Nelle città con più di 50 mila cittadini la percentuale di coloro che non frequentano luoghi di culto si alza fino al 24,1%. Seguono i paesi con meno di duemila abitanti con il 22,8%. Nei comuni tra le 10 mila e le 50 mila unità, la percentuale è di 21,2%. Mentre, nei paesi con meno di 10 mila abitanti, la percentuale scende fino al 19,1%.    

 

A un livello di istruzione maggiore corrisponde un distacco più profondo dai riti religiosi: ha detto addio ai riti ecclesiastici il 25,8% dei laureati e il 23,7% dei diplomati. La percentuale scende tra i cittadini in possesso di licenza media (23,2%) e crolla ulteriormente tra coloro che hanno frequentato solo le scuole elementari, 19%. Tutti i valori sono superiori rispetto a quelli del 2015. In ciascun caso si tratta di almeno un punto percentuale e in alcuni di due o tre punti percentuali di distacco — che, se applicati all’intera popolazione italiana, si traducono in una differenza di milioni di persone.  

 

 

Anche l’età conta. Il gruppo che si è assottigliato di più è quello dei giovani dai 20 ai 24 anni, dove solo il 13,3% dichiara di andare a messa almeno una volta a settimana, a fronte del 33,3% che dichiara di non andare mai a messa. Nonostante i cali, la pratica religiosa assidua resta più un’abitudine della popolazione anziana che non di quella adulta e  giovanile. Vanno in chiesa ogni domenica il 40,4% degli italiani tra i 65 e i 74 anni e il 48,1% dei bambini dai 6 ai 13 anni. Pur rimanendo una percentuale elevata, questi ultimi sono in calo rispetto al 2015, dove rappresentavano il 51,9%.

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