Geopod Ep.17 – La competizione mondiale dei microchip è iniziata: l’Italia dove si posiziona?

Sono così piccoli che possono pesare meno di un grammo. Li troviamo ovunque: negli smartphone, nei computer, nelle auto e in tutti i cosiddetti oggetti intelligenti. Saranno indispensabili per lo sviluppo di tecnologie come il 5G, la computazione quantistica, i veicoli a guida autonoma e renderanno possibili tutti quei servizi immaginati per le smart cities del futuro.

La Walletmor, un’azienda anglo-polacca, ha pensato persino di impiantarli sotto la nostra pelle per effettuare i pagamenti contactless, proprio come avviene per gli smartphone. E non è la sola compagnia a immaginare di usare questi piccoli oggetti per potenziare il corpo umano. Una per tutte Neuralink, di Elon Musk, che vuole impiantarli nel cervello. Insomma stiamo parlando del microchip. Il semiconduttore, un piccolo oggetto di cui nessuno ormai può fare a meno e che influenza gli equilibri mondiali. Dalla corsa all’implementazione della produzione nazionale al lancio di veti incrociati, la guerra dei microchip è iniziata.

L’industria dei semiconduttori si compone di due grandi campi: il primo è quello della ricerca e dello sviluppo di tecnologie necessarie alla realizzazione dei circuiti; il secondo riguarda la produzione nelle fonderie. Stati Uniti e Unione Europea sono leader sia nella progettazione di chip che in quella dei software e hanno la proprietà intellettuale degli strumenti che consentono la produzione dei semiconduttori. La fabbricazione vera e propria, però, avviene quasi esclusivamente nei Paesi asiatici. Taiwan, Corea del Sud e Giappone rappresentano il 56% della capacità produttiva globale, il 57% dei materiali e il 43% delle aziende per l’assemblaggio, l’imballaggio e i test. In questi Stati si trovano anche i materiali necessari per la produzione dei semiconduttori, come neon e palladio. Tra gli altri fornitori principali ci sono Russia e Ucraina.

La Cina è invece tra i primi consumatori di microchip: nel 2021, per esempio, Pechino avrebbe speso 187 miliardi di dollari in chip, pari a circa il 37% del consumo mondiale in questo settore. Tuttavia, la maggior parte dei microchip usati dal Dragone sono di importazione. Questo vuol dire che la Cina è fortemente dipendente da altri Paesi. Ecco perché punta a ridurre questa dipendenza, raggiungendo entro il 2025 il 70% di autosufficienza nella produzione dei semiconduttori. È un obiettivo difficile da raggiungere, dato che la Cina attualmente è forte solo nella produzione di chip di fascia bassa, mentre è molto indietro nello sviluppo di microchip più piccoli e sofisticati.

Pechino, inoltre, dipende dagli Stati Uniti e dai suoi alleati per tutte le tecnologie che permettono la realizzazione dei semiconduttori e i dazi sulle esportazioni imposti dall’amministrazione americana complicano ulteriormente la situazione. Per rallentare lo sviluppo del settore tecnologico e soprattutto militare cinese, gli Stati Uniti hanno vietato alle proprie aziende l’esportazione verso la Cina di chip e attrezzature per la loro realizzazione.

Questo ha spinto diversi player a implementare strategie di diversificazione: la multinazionale americana Intel, per esempio, ha aumentato i suoi investimenti in Vietnam, mentre l’azienda taiwanese Foxconn e il gigante minerario indiano Vedanta hanno annunciato un investimento di 19,5 miliardi di dollari per costruire una delle prime fabbriche di chip in India.

Oltre a scoraggiare gli affari con la Cina, l’amministrazione americana ha stanziato 52 miliardi di dollari per sovvenzionare le società produttrici di microchip negli Stati Uniti; 24 miliardi per l’apertura di una decina di fabbriche attive per la costruzione di semiconduttori e quasi 200 miliardi per la ricerca su IA, robotica e informatica quantistica.

Ma a giocare questa guerra non ci sono solo Stati Uniti e Cina. L’industria dei chip è per sua natura globale e la loro produzione intreccia i fili tra diversi Paesi. Gli Stati Uniti, leader nella ricerca e lo sviluppo, dipendono dagli altri per i passaggi intermedi. Corea del Sud e Taiwan sono l’avanguardia della componentistica di base, la Cina nelle operazioni di assemblaggio. Ecco perché gran parte dei microchip finiscono lì. E se non sarà più la Cina ad assemblare i nostri smartphone qualcun altro prenderà il suo posto.

L’ago della bilancia, per questa come per altre questioni è Taiwan. In riferimento al comparto di fabbricazione e assemblaggio, le aziende taiwanesi detengono circa il 65% dello share globale e oltre il 90% per quanto riguarda le tecnologie più avanzate. La Tsmc, la principale azienda taiwanese del settore, ha stabilimenti persino nella Repubblica Popolare cinese e sta realizzando diversi impianti di produzione in diversi Paesi, primi fra tutti Stati Uniti e Giappone che vogliono mettersi al passo nella realizzazione di microchip avanzati. La Tsmc inaugurerà anche il suo primo impianto in Europa, per l’esattezza a Dresda, in Germania. Anche la Commissione Europea, infatti, sta cercando di accelerare in questo settore. Il Chips Act prevede aiuti di Stato per stimolare l’impianto di fonderie e di linee produttive più innovative.

E in Italia a che punto siamo? L’ho chiesto ad Andrea Irace, Professore ordinario di Elettronica all’Università degli Studi di Napoli Federico II. Buongiorno, benvenuto a Geopod.

Andrea Irace: Buongiorno.

Lei fa attività di ricerca su dispositivi a semiconduttore per applicazioni automobilistiche, nella mobilità elettrica e ibrida. Le rigiro quindi la domanda, secondo lei, a che punto siamo con la ricerca e lo sviluppo di semiconduttori di prossima generazione?

Andrea Irace: In Italia la ricerca dei semiconduttori a livello industriale e accademico è stata ed è competitiva sia a livello continentale che se ci paragoniamo ad altri contesti come quello americano o del sudest asiatico.

ST Microelectronics è una multinazionale dell’ambito dei semiconduttori fabbrica dispositivi che noi utilizziamo in ogni aspetto della nostra vita quotidiana e produce i suoi chip anche nel meridione, negli stabilimenti di Catania, dove sono impiegate circa 4 mila persone. Il sito di Catania è quello in cui si fanno i dispositivi di cui io mi occupo personalmente per ricerca. Si producono sia dispositivi elettronici ad altissima scala di integrazione – per intenderci quelli che hanno dimensioni su scala nanometrica, veramente piccolissimi – che dispositivi elettronici di potenza, usati ad esempio nelle autovetture e nei convertitori degli impianti fotovoltaici. Mentre a Milano la produzione è più specifica nell’ambito dei microprocessori, dei microcontrollori.

Nei giorni scorsi, grazie a un imponente finanziamento di circa 300 milioni di euro della Comunità Europea sui 700 milioni di investimento complessivo stanziati da ST Microelectronics, è stata annunciata l’apertura di un nuovo stabilimento che darà impiego a altre 700 persone. Gli investimenti di ST sono costanti in questi settori, ma anche quelli di altre aziende. In Italia investono pure Micron e Intel, per la ricerca e la produzione.

Anche le università italiane sono all’avanguardia su queste tematiche, tanto che l’Università degli Studi di Napoli Federico II ospiterà per tre giorni a Sorrento, nel settembre del 2023, la più importante conferenza del settore.

E rispetto ad altri Paesi europei come si colloca l’Italia?

Sicuramente la Germania, per la struttura economica del Paese, investe molti più soldi in ricerca e anche le industrie per esempio sono molto presenti sul territorio. Noi la guardiamo un po’ come un punto di riferimento. Però, rispetto anche ad altri Paesi come la Francia e l’Inghilterra – anche se non è più nella Comunità Europea – siamo assolutamente competitivi e comparabili come produttività sia industriale che scientifica. Quindi in generale la Germania è un passo avanti, ma proprio perché strutturalmente, nel corso degli ultimi trent’anni, gli investimenti economici nell’ambito della microelettronica e dei dispositivi elettronici sono stati maggiori.

Quello che manca in Italia è un investimento strutturale in ricerca scientifica (quello che è mancato). Adesso, probabilmente, con l’investimento dei fondi del PNRR avremo la possibilità di accelerare nel campo della ricerca applicata sul lungo periodo. Come chiosa finale direi: spero che i fondi del PNRR vengano utilizzati per creare una struttura, che non siano solo spesi, ma siano messi per creare una struttura che poi negli anni successivi possa portarci anche addirittura al livello della Germania. Non siamo ancora a quel livello, ma le potenzialità ci sono tutte sia in ambito accademico in ambito industriale.

In conclusione, abbiamo visto che tutti i Paesi stanno cercando di rendersi più indipendenti nella produzione di semiconduttori e che il veto posto dagli Stati Uniti nei confronti della Cina sta accelerando l’integrazione delle aziende leader del settore, soprattutto quelle taiwanesi, sia in Occidente che in Oriente. Anche l’Italia, come ha spiegato il ricercatore Andrea Irace, sta giocando la sua partita con investimenti importanti sia privati che pubblici.

Puoi ascoltare qui le altre puntate di Geopod, il podcast di geopolitica.

Elisa Campisi

SONO GIORNALISTA PRATICANTE PER MASTERX. MI INTERESSO DI POLITICA, ESTERI, AMBIENTE E QUESTIONI DI GENERE. SONO LAUREATA AL DAMS (DISCIPLINE DELL’ARTE DELLA MUSICA E DELLO SPETTACOLO), TELEVISIONE E NUOVI MEDIA. HO STUDIATO DRAMMATURGIA E SCENEGGIATURA, CONSEGUENDO IL DIPLOMA TRIENNALE ALLA CIVICA SCUOLA DI TEATRO PAOLO GRASSI.

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