«Non chiamateci maschiacci».
Storie di donne che fanno lavori da uomini

In mezzo secolo di femminismo, per quanto ci si illuda di aver conquistato la parità di genere, ancora sentiamo la necessità di scendere in piazza e gridare al mondo i nostri diritti, sul lavoro, in politica, in famiglia.

Ceo, imprenditrici, manager, sono tante le donne che oggi ricoprono questi ruoli. Ma l’emancipazione comincia nella quotidianità. Ed è proprio da tale considerazione che nasce questo viaggio simbolico, che parte da un piccolo paesino in provincia di Messina e che arriva fino alla Brianza.

Quattro donne hanno condiviso con me la loro storia, fatta di normalità, ma anche di piccole battaglie che le hanno portate dove sono. A legarle è la professione che ognuna di loro ha scelto e che, nell’immaginario collettivo, è associata alla figura maschile.

Nel corso di tutte le tre interviste la parola normale è stata più volte ripetuta da tutte loro. Normali sono le loro vite, normali le difficoltà che hanno incontrato. Eppure, per molti ancora “non è normale” vedere una donna al volante di un camion, in un laboratorio di macelleria o sul tetto di una casa.

 

 

N come Norcino

Sfogliando il vocabolario, alla voce norcino, si leggerà: “s. m. Persona esperta nel macellare i maiali e nel lavorarne le carni per farne salumi”.

Un termine per le donne non è mai stato coniato. Accademici e linguistici di genere potrebbero non essere d’accordo e inizierebbero a utilizzare il termine femminile norcina, semplicemente. Soprattutto negli ultimi anni, in cui si è sentita sempre di più l’esigenza di accompagnare con le parole la parità tra uomo e donna.

Ma la lingua, per quanto evolva, resta figlia della storia. E il termine norcino porta con sé i racconti dell’Antica Roma: l’abilità manuale di questi uomini di Norcia, trasferiti nella capitale, li rendeva idonei anche ad altri tipi di interventi, come l’incisione di ascessi. E proprio nel Medioevo iniziò a essere usato anche in senso dispregiativo per indicare chi si sostituiva ai chirurghi.

«Norcino è una nozione che appartiene all’uomo e da noi ancora pensano che questo lavoro possa essere fatto solo da loro». A parlare sono Luisa e Pina Agostino due cognate che in provincia di Messina, a Mirto, portano avanti da quasi trent’anni l’azienda di famiglia La Paisanella.

«Siamo partiti nel 1986 mio fratello e io, figli di allevatori – spiega Pina, la più timida delle due, abituata a dimostrare con i fatti più che con le parole – All’epoca decidemmo di aprire una macelleria. Io ero piccola e di ritorno da scuola andavo direttamente là. Ho imparato da sola, piano piano».

E poi ha fatto da maestra anche alla cognata.

«Era difficile affidarsi totalmente a un operaio, così per ottenere il risultato migliore abbiamo deciso di farlo noi – racconta Luisa – Gli uomini dell’azienda sono solo mio marito e suo fratello, che, però, si occupa di allevamento. Io ho imparato tutto da Pina. L’ho fatto per amore di mio marito e come sfida per me stessa. Prima abbiamo iniziato il perfezionamento dell’allevamento, poi ci siamo dedicati anche alla trasformazione, grazie a quattro laboratori con annesse cantine di stagionatura».

Precisione, cura e soprattutto conoscenza dell’anatomia degli animali. Sono questi i requisiti principali del loro mestiere. «Ci vuole destrezza, non forza».

 

«Lavoriamo con alcuni esemplari di suino nero dei Nebrodi, una razza in via di estinzione. Il primo taglio deve essere accurato, altrimenti perdiamo due anni di lavoro, il tempo che impiega l’esemplare per crescere».

Ma Luisa e Pina sono più di semplici norcini.

«Io da macellaio non vendo solo la carne – precisa Luisa – Consiglio ai miei clienti come cucinare quel determinato pezzo. E lo faccio come donna e come mamma. C’è sapere dietro, ci sono tradizione e memoria di quello che abbiamo vissuto e che le nostre madri facevano davanti a noi bambini».

Portano avanti l’azienda, crescono i figli e nel frattempo studiano e si perfezionano nella loro terra.

«Da un po’ di anni a questa parte le donne sono state chiamate a nuove sfide qui da noi, ma è difficile. La nostra terra, la Sicilia, lo è. Stiamo recuperando una serie di mansioni che con gli anni erano state abbandonate. Per cui adesso è possibile trovare una donna che produce vino, un’altra che si dedica all’olio, e chi, come noi, ha a che fare con la produzione di carni. È una sfida che porta al progresso».

Ma nonostante ciò, molti clienti ancora restano stupiti di vederle al lavoro nel laboratorio a vista.

«C’è chi fa foto e video e chi ci scherza su: “Signora, noi con lei non vorremmo mai litigare”, mi dicono».

 

 

In nome della libertà

Parte da Ancona alle 23 e arriva a Carpi al mattino, percorrendo circa 700 km ogni giorno. Claudia Trucker, 30 anni e un nome d’arte forte come lei. Guida mezzi pesanti da quando ne aveva 20 ma a detta sua sul camion ci è nata. Ha imparato ad amare questo mestiere grazie alla madre che «ha aperto lo spartitraffico della situazione».

Così l’ho intervistata di notte proprio nel suo ambiente ideale. «Ho deciso di coprire questo turno forse per evadere. La notte ci si nasconde quasi». Ma Claudia è una ragazza che difficilmente passa inosservata. Mora, folti capelli ricci e decine di tatuaggi che la vestono come una seconda pelle.

Attualmente Claudia lavora come corriere espresso per una grande flotta di trasporto merci.

«Una donna per fare la metà di quello che fa un uomo lo deve fare bene il doppio. In questo lavoro vieni osservata continuamente, sai di avere gli occhi puntati su di te e il margine di errore deve essere minimo.  È per questo che spesso cerco di mantenere un profilo basso anche a livello comportamentale, di spiccare poco tra gli altri, proprio per evitare di essere messa al centro dell’attenzione più di quanto non lo sia già. Mia madre mi ha sempre detto di fare le cose per bene, a modo e a ritmo mio, per evitare di essere criticata. Perché non giudicheranno quello sbaglio come di consueto, ma come un errore da donna».

 

Il camionista è sempre stato un mestiere piuttosto diffuso in Italia, ma le donne al volante sono ancora poche. Sempre meno giovani decidono di intraprendere questa strada, perché se un tempo, oltre alle soddisfazioni personali, portava anche quelle economiche, oggi non è più così. Prendere tutte le patenti necessarie ha un costo che si aggira tra i 4.000 e i 6.000 euro (tra corsi di formazione, esami, abilitazioni e rinnovi). A ciò si aggiunge la concorrenza straniera che offre autisti a un prezzo più basso. Il risultato è che, in questo settore, l’età media è molto alta e lo scetticismo verso camioniste donne è piuttosto diffuso.

«Una volta, per esigenze aziendali, mi è capitato di dover viaggiare con un collega. Durante quel viaggio ha avuto grandi difficoltà nel fare una manovra e, pur di non chiedere aiuto a me, si è rivolto a un altro autista. In quell’occasione, grazie alla mia sensibilità femminile, ho fatto finta di niente, ma ho lasciato che parlassero i fatti per me: poco dopo mi sono trovata a fare quella stessa manovra, ma senza problemi».

Alzi la mano chi non ha mai sentito (o pronunciato) quell’odioso detto sulle donne al volante. È lì, nascosta tra quei pregiudizi, che il vero affrancamento vacilla.

«Spesso mi è stato detto che sembro un uomo, a volte persino che sono meglio di un uomo, come se fossero complimenti, come se dovesse obbligatoriamente essere migliore di una donna. Per non parlare delle allusioni sessuali. Qualsiasi gesto, sorriso o parola può essere fraintesa. Il segreto è crearsi uno scudo. Preferisco passare per una persona dura, scontrosa, a volte persino antipatica, per evitare di incorrere nella malizia e nella volgarità di molti uomini. Bisogna tirare il freno a mano prima che si possa andare a sbattere contro tutto questo».

Nonostante la sua giovane età, parlando con Claudia, si ha la sensazione di avere a che fare con con una persona che ha vissuto molti più anni di quelli che ha. E fa capire quanto una passione possa essere così forte e pericolosa allo stesso tempo.

«Il mio è un lavoro invadente. Condiziona non solo la giornata, ma anche la vita privata. Limita i rapporti di amicizia e molto spesso ci si ritrova soli, perché non si viene capiti.

A lungo andare può logorare, soprattutto se penso che la vita è una e l’ho dedicata totalmente a questo. Ma ti aiuta anche ad apprezzare di più il tempo che hai a disposizione. Da poco convivo con il mio compagno ed è bello sapere che, quando torno a casa, ho qualcuno che mi aspetta».

Per amore del fuoco

«Ero un’analista contabile finché, a un certo punto non ho scelto di seguire mio marito in quella che per lui era una nuova passione. Mi sono innamorata anche io del fuoco e da 12 anni, ormai, sono una spazzacamino».

A parlare è Francesca Carnati, la prima donna a iscriversi all’Anfus, Associazione Nazionale Fumisti e Spazzacamini, e una delle tre su 167 operatori riconosciuti.

«Ho l’onore di essere la prima spazzacamino italiana. Non è un lavoro per me, ma una rete familiare di grandi persone con le quali non solo si collabora, ma si scambiano idee e consigli. Amo lavorare con gli uomini ma non perché io sia un maschiaccio. All’inizio per i miei colleghi ero la moglie di. Lo stesso accadeva con alcuni clienti. Fissavo un appuntamento e quando l’indomani mi recavo nelle loro case, alcuni restavano stupiti. Ma con gli anni tutti loro hanno imparato a conoscermi».

Brianzola, nata e cresciuta ad Arcore, Francesca è una donna rock che non ha paura di mettersi in gioco o di sporcarsi di fuliggine.

«Non ho mai avuto timore del lavoro che ho deciso di fare, anche perché sono sempre stata spinta dall’entusiasmo. Ma all’inizio essere donna spazzacamino non è stato semplice. In generale, rispetto agli uomini, abbiamo dei limiti fisici. Ho meno forza e spostare una scala lunga è per me molto più faticoso di quanto non lo sia per mio marito. A volte mi trovo a fare interventi in case che si trovano al quarto o al quinto piano, senza ascensore. Ma non mi considero una Superdonna dotata di poteri. Certamente non mi mancano i dubbi, non mi sento mai finita o sicura. Ritengo che nella vita ci sia sempre da imparare, soprattutto per stare al passo con tutte le normative».

 

 

Anche qui l’attenzione e la cura femminili sono fondamentali.

«Da donna so cosa vuol dire entrare nella casa di un cliente, toccare le cose altrui. Ci tengo a non sporcare nulla e a stare attenta, e mi piace fare un complimento o dire una parola cordiale in più. Con molti di loro si è creato un vero e proprio rapporto di affetto».

E quando si toglie l’imbracatura e si cala dai tetti, tornando con i piedi saldi per terra, le aspetta un altro duro lavoro a casa, quello di mamma di due bambine di 13 e 12 anni.

«Il papà fumista e la mamma un po’ contabile e un po’ spazzacamino. Le mie figlie hanno vissuto questa situazione da quando sono nate e per loro è la normalità – mi racconta in auto, proprio mentre andiamo a prendere la più piccola, tra una commissione e un’altra – Non ci considerano degli eroi solo perché saliamo sui tetti. Ma per gioco la più piccola ama imitarmi, mentre sono lì a pulire il camino di casa nostra. Sa come si fa, conosce gli attrezzi del mestiere. Non sono stata io a spiegarglielo, né vorrei che fosse per forza questo il suo lavoro da grande. Ma fa parte della nostra vita».

 

Femminile a modo mio

Che indossino un camice, una tuta da lavoro o le scarpe antinfortunistiche, tutte loro sono donne e lo rivendicano a gran voce. Non serve un tacco 12 o un rossetto rosso per essere femminili.

È la natura a renderci tali e ognuna lo è a modo suo.

 

@bea_barbato on Twitter

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