Summit sul clima di New York, il “fenomeno” Greta non basta

«E’ una corsa che possiamo vincere», recita così lo slogan delle Nazioni Unite, che tra meno di un mese si riunisce a New York per il prossimo summit sul clima. Intanto, la giovane attivista svedese Greta Thunberg ha toccato la terraferma, dopo aver solcato per tre settimane l’Oceano Atlantico su una barca a vela senza motore, ma dotata di pannelli solari.

Senza le sue solite treccine – quelle che l’hanno resa famosa – ma con i capelli disordinati e il volto infreddolito, Greta non si è sottratta né all’abbraccio caloroso dei suoi sostenitori né ai microfoni dei giornalisti americani, pronti ad attenderla. Pur partecipando al summit, non incontrerà personalmente il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Lo aveva già annunciato prima di partire alla volta di New York.

Eppure, all’adolescente che ha dato il via al movimento dei Friday’s for Futurenon manca il coraggio per ribadire che è arrivato il momento per il tycoon di ascoltare gli scienziati. Gli stessi che non fanno che ripetere, insieme a migliaia di giovani, che il riscaldamento globale è in atto. Che si aggrava di anno in anno e che resta una manciata di anni, al massimo dieci, per evitare che la temperatura media globale aumenti di 2°.

L’estate 2019 è da ricordare. Non solo per il caldo estremo – quattro le ondate di calore che hanno stretto in una morsa bollente il Nord Europa – per gli incendi devastanti prima in Siberia e poi in Amazzonia e, infine, per il pauroso scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia. Ma anche, in parte, per l’attenzione che i giornali di tutto il mondo, anche quelli italiani, alcuni, hanno dedicato ai temi  ambientali e al pericolo rappresentato dal cambiamento climatico.

Un’attenzione mediatica che, dopo il G7, in cui grazie al protagonismo del presidente francese Emmanuel Macron si è parlato molto di ambiente, punta i riflettori sull’arrivo di Greta negli Stati Uniti e sui giorni che mancano al summit di New York.

Nel frattempo, proprio al G7, davanti all’iniziale atteggiamento sprezzante del Presidente brasiliano Jair Bolsonaro, accusato di non muovere un dito per spegnere i vasti incendi divampati nella foresta pluviale temperata più grande e più preziosa del mondo, secondo tanti commentatori e giornalisti, l’ambiente è stato l’unico tema, aggiunto all’ultimo minuto in agenda, sul quale i Paesi industrializzati hanno dimostrato coesione. Tanto da costringere Bolsonaro a intervenire in Amazzonia per domare le fiamme, dopo la minaccia di sanzioni e di veti all’ingresso del Brasile nell’Ocse.

E’ indubbio che i danni irreversibili agli habitat, al suolo, l’innalzamento dei mari, lo sconvolgimento del clima, oramai palese dal 1990 a oggi, sono fattori che incidono sull’economia e sulla salute degli Stati. Di tutti. Nessuno escluso. E che per parlare di ambiente e di clima, per agire, c’è bisogno della politica. Di gesti. Iniziative. Azioni.

Ecco l’ultima novità, l’agenzia Federale per la Protezione Ambientale americana (Environmental Protection Agency) – scrive il New York Times – ha deciso di allentare le regole, imposte dalla precedente amministrazione, sulle emissioni di metano prodotte dagli impianti di estrazione del petrolio e del gas.

Un provvedimento che non farà che aumentare la CO2, perché – spiegano i giornalisti – l’idea che il metano sia una risorsa sostenibile è un falso mito. Dopo il petrolio, infatti, è proprio da questo gas, a tutti gli effetti un combustibile fossile, che deriva il maggior inquinamento.

Ma questa iniziativa dell’Epa non è l’unica ad andare contro a provvedimenti voluti da Barack Obama. Sono 84 le restrizioni ambientali che Trump ha sospeso o modificato dall’inizio del suo mandato.

L’entusiasmo dei leader al Summit di Parigi del 2015 per la conclusione dell’Accordo a cui hanno preso parte per la prima volta assieme India, Cina e Stati Uniti

Un bilancio: quattro anni dopo gli Accordi di Parigi

Ci siamo lasciati con la frase di Bolsonaro che, qualche settimana fa rispondendo alla domanda di un giornalista della Bbc sulla deforestazione dell’Amazzonia, ha proposto di iniziare a mangiare meno e produrre così meno escrementi. Abbiamo assistito alla infelice defenestrazione di uomini che per l’Amazzonia si sono battuti, obbligati a scontrarsi con l’ottusità e l’ignoranza di Bolsonaro. Siamo stati costretti a sentire solo l’anno scorso le banali affermazioni di Trump sul clima e sugli incendi che hanno devastato la California: «per evitarli dovremmo deforestare».

Ancora prima abbiamo visto centinaia di politici stringersi le mani, con sorrisi compiaciuti, allo “storico” incontro sul clima del 2015 a Parigi. Pochi giorni fa li abbiamo sentiti preoccupati per l’Amazzonia oppure decisi a non vendere al migliore offerente la Groenlandia – per questo dobbiamo ringraziare i danesi – dopo la sconcertante offerta fatta da Trump. Avvoltoio pronto ad approfittare dello scioglimento dei ghiacci per impossessarsi delle risorse di una terra considerata (per ora) intoccabile. O ancora dimostrare empatia e solidarietà davanti al fuoco che ha avvolto la Siberia, mentre Vladimir Putin rifiutava qualsiasi aiuto straniero per domare le fiamme.

E non è ancora finita, perché abbiamo sentito parlare anche dei disaccordi alla Cop24 di Katowice in Polonia. I Paesi del blocco di Visegrad, che non hanno nessuna cognizione di cosa sia il cambiamento climatico, hanno detto no all’abbandono del carbone.

Per finire i politici, gli stessi convinti che l’Accordo di Parigi sarebbe stata una pagina storica per il clima, uno fra tutti Barack Obama, hanno fatto cruciali concessioni, ancora una volta, a Cina e India, grandi inquinatori, affinché firmassero: nessuna sanzione e nessun controllo sullo sforamento dei limiti di emissione di CO2.

Concessioni queste che a guardare gli scatti a conclusione del summit di Parigi erano sembrati già a molti delle vere e proprie prese in giro. Preludio di un fallimento annunciato a pochi minuti dalla fine. E ciliegina sulla torta: l’uscita degli Stati Uniti di Trump dall’Accordo sul clima.

Questo è il ritratto di una politica confusa, a tratti schizofrenica, che si preoccupa solo nel momento in cui avvengono i disastri. E che troppo spesso perde la bussola.

Il presidente francese Emmanuel Macron, che all’ultimo G7, ha portato sul tavolo gli incendi in Amazzonia contro Bolsonaro

E…il summit di New York allora?

A parte un altro, legittimo, discorso di un adolescente di 16 anni, che per sua stessa ammissione, ha affermato che è arrivato il momento che del clima se ne occupino gli “adulti” con azioni concrete, molto probabilmente, al summit sul clima non c’è da aspettarsi nessuna novità. Forse la fragile presa di coscienza che il cambiamento climatico si sta aggravando. L’ammissione che gli Accordi di Parigi si stanno dimostrando un fallimento, visto gli ultimi dati sulle emissioni di anidride carbonica che hanno raggiunto un nuovo livello record solo l’anno scorso.

In questo quadro, mentre l’evidenza scientifica continua a fare a cazzotti con il negazionismo becero e ipocrita di alcuni politici di primo piano, manca ancora almeno una buona notizia per l’ambiente e per il clima.

L’unica, per ora, è la mobilitazione dei giovani. Le manifestazioni di protesta di esponenti della società civile di fronte alla distruzione dell’Amazzonia, l’iniziativa di alcuni privati. Per il resto, quello che ci aspetta è una strada in salita. Costellata di disastri evitabili, gaffe politiche, veti e contro veti.

Ma, c’è sempre una cosa che non dovremmo dimenticare, scriveva Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita: «questo è l’unico mondo che abbiamo». Scontato. No, non lo è.

Greta Thunberg due anni fa ha trascorso venti giorni sotto il Parlamento di Stoccolma scioperando da scuola per il clima
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