La storia siamo noi e ve la raccontiamo

Di Angelica Cardoni e Carlo Maria Audino

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Lo storytelling è una narrazione personalizzata in cui le vite più insignificanti diventano di interesse collettivo. E’ un modo di dare del tu al mondo in un’epoca che permette a chiunque di dire qualcosa. Anche se in verità tutti si raccontano e lo fanno inconsapevolmente o meno. Una smorfia, una cadenza dialettale, una risata chiassosa e quel modo goffo di parlare in pubblico. Sono storie che rispondono all’innato bisogno dell’uomo di raccontarsi e di raccontare, naturalmente in forme diverse. Ne è passato di tempo dai primi graffiti sulle caverne e dal classico incipit dei poemi omerici “Narrami, O Musa!”. C’è un motivo ben preciso che ha portato l’arte dello storytelling ad essere la tecnica narrativa attualmente dominante. Lo scrittore Antonio Scurati, direttore scientifico e coordinatore didattico del Master IULM in Arti del racconto, ne spiega le origini. “Lo storytelling nasce dal vuoto che le speranze della modernità, rivelatesi illusorie, hanno lasciato. Tutti quei discorsi sul progresso e su un mondo che razionalmente avremmo potuto controllare hanno assunto una piega malinconica. Ed è per questo che lo storytelling deve essere consolatorio, non più promettente come lo era la funzione tipica dei racconti ottocenteschi e novecenteschi. Certo, bisogna essere consapevoli che l’arte del racconto è in una fase in cui rischia di diventare un’ideologia totalizzante”.

Fondamentalmente già lo è totalizzante, considerando le profonde influenze che ha avuto nel mondo del marketing, del cinema, della letteratura, dello sport, della politica e della medicina: “Chi crede più nella scienza dell’Ottocento? Le sue tecniche vengono utilizzate quotidianamente, prive dell’aspettativa che possano offrire una via di fuga dal dolore e dalle ingiustizie sociali”. Senza poi tralasciare il settore del giornalismo. “Con lo storytelling i contenuti informativi diventano secondari. Il giornalismo anglosassone, per natura quello più obiettivo, abbandona l’idea di una dimensione veritativa della notizia, mentre il giornalismo latino mette da parte la sua concezione fondativa”.                               

Scurati evidenzia il momento preciso che ha aperto le porte a una svolta letteraria di questo tipo. Il romanzo più significativo è “A sangue freddo” dello scrittore statunitense Truman Capote che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, provò a unire la scrittura letteraria a quella giornalistica basata sull’indagine sul campo. Il suo fu un esperimento vincente. “L’aspetto da considerare è lo scarto del linguaggio. Quel racconto fu un capolavoro perché Capote scrisse un romanzo da un fatto di cronaca, come l’assassinio brutale di una famiglia di contadini. Trascorse anni a documentarsi nel Kansas e diede dignità letteraria a una vicenda criminale che non era significante per i criteri dell’epoca, ma che lo divenne grazie allo storytelling. E’ questa la sua vera essenza”. Una tecnica narrativa che ha tenuto la mano agli effetti prodotti dai cambiamenti storici. “Nell’Ottocento il popolo era al centro della storia, il Novecento è stato il periodo delle masse, mentre quella attuale è la stagione dei populismi. E’ l’epoca che autorizza a parlare, è la stagione in cui va di moda dire ‘la mia parola vale quanto la tua’. Il vero storyteller è l’alfiere di questa ideologia populista e con l’arte della persuasione ne diventa suo capo e manipolatore”. Un discorso che calza alla perfezione la mentalità occidentale, ma che è troppo stretto per il resto del mondo: “Tutto questo non vale per gli islamici, autori di una propaganda bellica, simile al totalitarismo”. Insomma, è evidente che tra la fine del secolo scorso e quello attuale ci sia stata una frattura profonda. E in un mondo in cui tutti potrebbero diventare dei probabili storyteller, in grado di creare una relazione empatica e partecipativa con i propri interlocutori, quali sono le prospettive future? Lo storytelling resterà tale o sposterà il suo sguardo verso altri orizzonti? A maggior ragione perché di questa nuova epoca si hanno solo i primi avvisi. “L’unica certezza è che le forme antiche della conoscenza vanno a sgretolarsi e fondamentalmente quelle per sostituirle ancora non esistono”.                                                                                             

nuovi orizzonti

Con la nuova concezione di storytelling, sono molti gli ambiti di contaminazione del nuovo modo di raccontare e raccontarsi. Gli autori cercano sempre nuove strade, nuove tecniche e nuove modellazioni dei mezzi che già si hanno a disposizione. Dal cinema alle campagne elettorali, dalle fiction e dai romanzi sino alla comunicazione istituzionale, tutti gli ambiti sono stati invasi da questa volontà di esprimere l’arte del raccontare per far immedesimare il ricevente del proprio messaggio all’interno del proprio mondo. Eppure, nonostante l’obiettivo sia lo stesso, ci sono molte differenze tra mondi diversi frutto di culture differenti ma anche di origini e background storico-culturali divergenti.                                                                                                                                   I maggiori cambiamenti si sono avuti nella comunicazione istituzionale: un tempo prettamente monodirezionale, negli ultimi anni c’è stato un cambio di paradigma preponderante. Basti pensare alla campagna elettorale del nuovo presidente degli USA Donald Trump: il magnate non ha puntato semplicemente su annunci altisonanti e promesse, con i suoi discorsi è riuscito a costruire una narrazione che riportasse l’attenzione sulle origini, uno storytelling in cui gli elettori si sono riconosciuti perché il loro malcontento veniva finalmente ascoltato. In sostanza è riuscito a dare e a far passare quel concetto di identità che tutti cercano. Identificazione che è anche un marchio di fabbrica della Apple che ha avuto in Steve Jobs lo storyteller per eccellenza. Il “mago” di Cupertino, con il suo celebre “Stay hungry. Stay foolish”, ha riproposto i luoghi comuni della retorica romantica a una platea che ha dimenticato le origini, ossia quella genialità, quella fame di vita, quella spinta passionale che contraddistinguono l’azienda. Inoltre, con le sue pubblicità innovative, ha creato una brand identity eccezionale: l’idea di costruire una campagna con le foto scattate da persone comuni, infatti, ha fortificato l’idea del “Noi siamo Voi”, nascondendo il lato negativo di una multinazionale che ha tolto lavoro a molte persone e rinforzando la fedeltà dei consumatori.                                                                                                                                     due modelli diversi: italia vs usa

Varcando l’oceano e arrivando nel nostro paese, è emblematico l’esempio dell’Eni. Con l’assunzione di un giornalista vero e proprio come responsabile della comunicazione, Marco Bardazzi, ex caporedattore digitale della Stampa, la multinazionale italiana ha avviato questo processo di cambiamento con l’obiettivo di oltrepassare il guado e mostrare la propria identità condividendola con il mondo. Documentari, racconti e fotografie sono gli strumenti tramite i quali l’Eni cerca questa vicinanza con il mondo esterno, giocando tantissimo con il discorso di identità: protagoniste spesso sono le stesse mani dei lavoratori che ogni giorno si adoperano per il conseguimento degli obiettivi aziendali. In sostanza lo stesso scopo ma con una sensibilità diversa proprio perché dedicati a pubblici che hanno culture diverse. Ma anche gusti diversi e ciò lo si può capire anche dalla differente costruzione di plot nella letteratura e nel cinema.                                                                                  

Provando a paragonare due grandi scrittori come David Foster Wallace da una parte e Alessandro Baricco dall’altra, è facile notare la diversità di impostazione che ricalca anche la diversa concezione di storia che i propri lettori si aspettano: da una parte la rappresentazione della cultura americana con i suoi cunicoli e un mix di mondi diversi, sotterranei, che si intrecciano con quello che è il panorama principale, dall’altra la storia classica che gioca più sul piano emotivo che su quello metanarrativo, racconti dove le sensazioni e le emozioni emergono preponderanti. Un fedele attaccamento a quelle che sono le proprie tradizioni e a ciò che maggiormente ha suscitato successo nella collettività.  Ma perché due modi così diversi? Le risposte si possono trovare nel passato stesso: da un lato l’America con il suo fascino di mondo nuovo da scoprire, un mondo sempre in movimento e che fa della frenesia il suo tratto peculiare; dall’altro l’Italia da sempre attaccata alle proprie radici e alla propria storia di paese mediterraneo.

La stessa dicotomia la si può trovare anche nel cinema: se “The Departed”, film del 2006 diretto da Martin Scorsese, gioca su mondi paralleli che prima o poi si incrociano, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino è uno spaccato di vita quotidiana che, oltre a voler raccontare la realtà, fa rivivere il neorealismo e quella costante richiesta di verità, di racconti che parlino di uomini comuni e delle loro azioni quotidiane.                                                                                          Di esempi ce ne sarebbero tanti altri ma finiremmo per sfociare in un elenco che potrebbe risultare noioso. Per capire lo storytelling di oggi basta comprenderne il concetto di base, ossia quell’inesauribile voglia di raccontare ma soprattutto raccontarsi. Non è un caso, quindi, che diventino storie le prodezze dei campioni dello sport (il filone di “Sfide” su Rai Tre e di “Buffa racconta” su Sky Sport), i peggiori casi di cronaca nera (Netflix ha lanciato il suo prodotto originale su Amanda Knox, Canale 5 tempo fa ha proposto una fiction sul mostro di Firenze). Ma al giorno d’oggi basta un semplice social network per diventare uno storyteller. E questo è già un nuovo capitolo all’interno di questa storia infinita.

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