Spagna, viaggio tra i populismi iberici

a cura di Beatrice Barbato, Chiara Colangelo, Corinne Corci

A Madrid, negli anni ’80, tutto era perfetto. Le elezioni generali vedevano la netta affermazione del Partito Socialista (Psoe) di Felipe Gonzàles, e i giovani fremevano per quella nuova esplosione di libertà. Tutto era perfetto. Salvo una cosa: un uomo che lasciava una donna.

Ma se, nel narrare quella Spagna secolarizzata e di rottura, il primo Almodovar di Donne sull’orlo di una crisi di nervi non aveva incontrato difficoltà, è nei gangli di quella di oggi che il suo occhio registico si perde. Una Spagna globalizzata, digitalizzata e dinamica, bene intercettata dal partito Podemos che, insieme alle sinistre (e quindi alla vittoria dello Psoe di Pedro Sanchez), ha rafforzato il proprio elettorato nelle scorse europee. In controtendenza rispetto agli altri grandi paesi dell’Unione europea, l’estrema destra spagnola, Vox, è entrata in Parlamento deludendo le aspettative, fermandosi al 10 per cento.

 

È la doppia faccia del populismo. Di chi, nato sulla base di una critica al sistema partitico spagnolo, si è dimostrato abile nell’intercettare le tensioni delle nuove generazioni; e di quanti, invece, hanno rielaborato e adattato alle nuove paure una matrice di destra che non si è mai spenta, tesi così a difendere il modello franchista.

È utile, a questo proposito, considerare che la tradizione populista spagnola, che emerge in una prima fase del ventesimo  secolo e che anticipa la rivoluzione civile, facendo appello a un’identità spagnola antica e tradizionalista, ha sempre funzionato anche come elemento di consolidamento del potere rispetto alle spinte centrifughe dei modelli spagnoli. Allora, il primo caso fu quello della Falange Española,  che la Spagna sperimentò nel ’34: un populismo che invoca quel rapporto (ideale) tra croce e spada che aveva segnato la storia della monarchia iberica.

È attraverso un simile percorso, dalla guerra civile prima e gli anni del franchismo poi, che simili dinamiche populiste si istituzionalizzano, come ricorda il professore di Storia Internazionale all’università Iulm Massimo De Giuseppe. Si affermano, certo, ma con le opportune differenze.

 

 

 

Da sinistra a destra, il percorso dei populismi spagnoli

Quando venne pubblicato The populist zeitgeist nel 2004, il dibattito sul populismo non era ancora entrato nel vivo. L’autore, il politologo olandese Cadde Mudde, tentò di offrire una definizione concisa di un fenomeno che sarebbe esploso in Europa, con la crisi economica. Secondo Mudde, il populismo si sostanzia in poche convinzioni di fondo che costituiscono un’ideologia «esile». Per sopravvivere, il populismo ha così bisogno di legarsi alle istanze consolidate dei partiti tradizionali. Senza mai rinunciare all’idea della rottura.

In Spagna, il populismo ha trovato terreno fertile su cui attecchire, sia a sinistra che a destra. Il primo partito a fare strada è stato Podemos. I semi sono stati piantati all’università Complutense di Madrid, dove il leader Pablo Iglesias era ancora un giovane professore di 29 anni, alla guida della protesta studentesca. Sullo sfondo c’era già la crisi economica, che  colpì duramente i giovani tra il 2011 e il 2013, quando il tasso di disoccupazione superò il 26%.

Giles Tremlett, corrispondente del Guardian a Madrid, ha descritto Iglesias come «una persona con le idee ben chiare su quali siano i mali del mondo. Non il classico intellettuale di sinistra». Per Iglesias capitalismo e globalizzazione restano i principali demoni contro cui lottare.

È nel 2014 che questo giovane professore trova il coraggio e i mezzi per fondare il partito. In meno di un anno Podemos avrebbe portato in piazza 150 mila persone, in occasione della “Marcia per il cambiamento”, per poi fare il suo ingresso trionfante al Parlamento di Madrid nel 2016. L’antagonismo tra il popolo, inteso come buono, e l’élite, vista come corrotta e distante dai bisogni della gente comune, è la fiamma che accende i discorsi di Iglesias. Convinto che esista una «volontà generale» che ha  «desideri» e «sogni». Prosciugati dalla finanza, dalla corruzione dei partiti e dalla Casta.

Sulla scia del movimento degli Indignados, Podemos incalza contro l’austerità imposta dall’Europa, traendo linfa per le sue istanze antipartitiche. Sin dal suo ingresso in Parlamento Podemos è apparso come il populismo della sinistra radicale, intenzionato a sottrarre il consenso ai socialisti. «Radicale e pragmatico nella sua ricerca del potere», scrive Tremlett, Podemos, fondato sulla partecipazione dei circoli e un grande coinvolgimento degli attivisti, esiste grazie al carisma e alle convinzioni di Iglesias.

Secondo il politologo Francisco J. Vanaclocha dell’università Carlos III di Madrid, il partito Podemos ha fatto «da apripista». Il successo iniziale di Iglesias ha dimostrato a una parte degli spagnoli che era possibile udire i primi scricchiolii del sistema dei partiti.

Ne approfitta Albert Rivera, leader di Ciudadanos, abile comunicatore, che in poco tempo ruba la scena a Iglesias.  Nonostante il partito tragga ispirazione dall’ideologia liberale,  anche Rivera è convinto che i partiti tradizionali vadano superati, ma partendo da posizioni moderate. Tanto che il successo di Ciudadanos – che dalla sua nascita nel 2005 è riuscito a rafforzare la propria base elettorale negli anni della crisi – si deve alla retorica anti-partitica e anti-casta assunta sulla scia di Podemos.

Nel 2013 da alcuni ex funzionari del Partito Popolare nasce una nuova formazione politica, Vox, entrato per la prima volta nel Parlamento locale della Regione autonoma dell’Andalusia nel 2018, con l’11% dei voti. La “reconquista” di Vox s’innesta sul sentimento d’indignazione di una parte della società andalusa, emerso con la crisi catalana. Con una forte vocazione identitaria, Vox è il tipico partito populista di destra, nazionalista, di stampo franchista, xenofobo e anti-femminista. Il suo leader, Santiago Abascal, si fa portavoce di una maggiore tutela giuridica dei simboli nazionali (bandiera, inno e corona), del ripristino del castigliano, come unica lingua ufficiale nel Paese, dell’abrogazione della polizia catalana e basca e della legge sulla Memoria storica. Ma Abascal è anche il leader che rifiuta l’idea del “politicamente corretto” e che sfrutta la tattica mediatica della “guerra culturale”, racchiusa nello slogan “Hacer Espana Grande Otra Vez” ovvero “Fai tornare grande la Spagna”, possibile solo con la chiusura delle frontiere e la sospensione dello spazio Schengen.

Ma mentre sembrano aprirsi le prime crepe nelle democrazie rappresentative europee, i populismi spagnoli devono attendere. Perché a rubare loro la scena c’è il Partito Socialista di Pedro Sànchez. E’ così che la Spagna “riparte” dalla vittoria di un Partito tradizionale.

 

 

 

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