Nassiriya e Kirkuk: sedici anni e 700 chilometri dopo

Sedici anni e 700 chilometri dividono Nassiriya da Kirkuk, distanze temporali e geografiche che possono sembrare ampie, e che invece si sono annullate nella mente degli italiani domenica 10 novembre, alla notizia dell’attentato subito dai nostri soldati.

Gli attacchi

Il fumo, le grida. Sono le 11.16 del 10 novembre nei pressi di Kirkuk, in Iraq, quando un ordigno artigianale esplode al passaggio del convoglio italiano Task force 44. Come da protocollo, alcuni militari procedono a piedi, gli altri, una ventina, sui blindati. La deflagrazione investe il gruppo, ferisce gravemente cinque incursori, due parà del nono reggimento d’assalto Col Moschin dell’Esercito e tre del Gruppo operativo della Marina.

Stesso fumo, stesse grida, ma una dinamica diversa quella dell’attentato di Nassiriya. Sono le 10.40 del 12 novembre 2003. Un camion cisterna imbottito da quasi 300 chili di tritolo e liquido infiammabile si scaglia a tutta velocità contro la base italiana “White Horse”. Andrea Filippa, il Carabiniere di guardia all’ingresso, prima di cadere, riesce a sparare e uccidere due kamikaze, impedendo che il camion raggiunga l’interno dell’area. L’esplosione investe però il deposito delle munizioni, scatena l’inferno. Muoiono 12 Carabinieri, cinque militari dell’Esercito, un cooperante internazionale, un regista e nove iracheni.

I soccorsi

Nei pressi di Kirkuk, 10 novembre 2019. Gli elicotteri statunitensi si alzano in volo, soccorrono i feriti e li trasportano all’ospedale “Role 3”. Un primo sospiro di sollievo: «Nessuno è in pericolo di vita», ma tre feriti sono gravi. Uno di loro subisce l’amputazione della gamba, un suo compagno quella parziale del piede, al terzo vengono ricuciti gli intestini. Due giorni dopo anche lui perderà una gamba.

Nassiriya, 12 novembre 2003. Il paesaggio è lunare, per terra una distesa di sangue, calcinacci, vetri. I soccorsi inizialmente non rispondono, morti e feriti sono ovunque. Un cratere prende il posto della base “Maestrale”, quello che verrà definito «Il nostro Ground Zero» dall’allora ministro della Difesa Antonio Martino.

Le missioni militari

Antica Babilonia e Prima Parthica, le due operazioni sotto le quali i militari italiani sono stati colpiti. La prima, avviata nel 2003, a pochi mesi dalla fine della guerra in Iraq, coinvolgeva 3000 militari. Una missione per il mantenimento della pace, per assistere il martoriato popolo iracheno in quella che doveva essere una rinascita. La seconda, iniziata nel 2014 e tutt’ora in corso, assiste le forze locali e i curdi nella lotta all’Isis, con attività di supporto e addestramento. Operazioni di pace in zone di guerra, che come sempre dividono l’opinione pubblica.

Dopo gli attentati

Roma, 18 novembre 2013. Una folla immensa si mette in fila a piazza Venezia, per rendere omaggio ai caduti. Il silenzio, insieme ai tricolori esposti sui balconi, avvolge la Capitale. Nel frattempo si cercano i colpevoli in Iraq. Le ipotesi sulla matrice dell’attentato sono diverse: al Zarqawi, gli estremisti sunniti o Al Qaeda.

11 novembre 2019. L’Isis rivendica l’attacco a Kirkuk: “Con il favore di Dio, l’esercito del Califfato ha causato la distruzione di un veicolo e il ferimento di 4 crociati e di quattro apostati”. I “crociati” sono gli italiani, gli “apostati” i curdi. Daesh è stato sconfitto sul campo, il loro capo, al Baghdadi, ucciso dagli Stati Uniti. Ma il terrorismo islamico continua a far paura.

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