Il leader laburista Corbyn apre a referendum bis sulla Brexit

La svolta tiepida del Labour Party

Un piccolo passo per Jeremy Corbyn, ma non ancora un balzo decisivo per i laburisti. Si potrebbe definire così la timida apertura del leader del Labour Party a un secondo referendum sulla Brexit, parafrasando la celebre frase pronunciata da Neil Armstrong allo sbarco sulla Luna. È stato annunciato ieri che il partito chiederà di tornare alle urne per «fermare un No Deal o una dannosa Brexit conservatrice». E ha aggiunto che, in caso di un secondo referendum, farà campagna per rimanere in Europa. La comunicazione è avvenuta tramite una email inviata ai membri del partito dal segretario Corbyn, cui da tempo veniva chiesto di prendere una posizione decisa in merito all’uscita dall’Ue.

Il leader dei laburisti non ha detto quale sarà la linea del partito in caso di elezioni anticipate in autunno, ma ha chiarito che di fronte a una concreta possibilità di una Hard Brexit, la scelta deve essere affidata al popolo. L’obiettivo è in ogni caso quello di fermare una separazione dal Vecchio Continente senza accordo, giudicata catastrofica. «Voglio rendere chiaro che il Labour farà campagna contro il No Deal o un accordo dei Tory che non protegge l’economia e il lavoro».

Una posizione netta, che non indica però la metamorfosi del Labour nel partito del Remain. Ufficialmente infatti l’idea è quella di promuovere una «Brexit progressista», che mantenga la Gran Bretagna fortemente legata al mercato unico, proteggendo l’occupazione. D’altra parte Corbyn è un euroscettico che si è trovato sotto ingenti pressioni per spostare la linea del partito verso l’ala più moderata e filoeuropeista: sin dal referendum è stato accusato di non aver mantenuto una posizione decisa, nel tentativo di tenere insieme gli elettori pro-Ue e quelli invece favorevoli alla Brexit. Un “giusto mezzo” che è costato la perdita di migliaia di voti alle elezioni europee dello scorso maggio.

È chiaro che la linea del partito laburista (e del suo stesso leader) è in evoluzione, e chissà che alla fine Corbyn non scelga di parteggiare per un annullamento in toto della Brexit. Una decisione che potrebbe essere vissuta come un tradimento dalle classi lavoratrici, che vedrebbero così confermata la tesi dell’establishment che decide dall’alto preoccupandosi solo del ristretto manipolo della élite. Proprio quello su cui Nigel Farage, promotore della Brexit a tutti i costi e vincitore delle elezioni europee con il boom di voti per il suo Brexit Party, ha fatto campagna per anni.

Ma si tratterebbe anche di una notevole marcia indietro per lo stesso Corbyn, personalmente euroscettico e fortemente convinto che le politiche di austerity imposte dall’Unione europea siano insostenibili dal punto di vista economico e politico per il Regno Unito. Ripercorriamo le tappe più importanti dei suoi anni alla guida del Labour Party, e le sue dichiarazioni più significative.

Alcuni manifesti anti-Brexit fuori dalla Houses of Parliament a Londra

La mozione di sfiducia dopo il referendum e la crisi interna del partito

Accusato di non aver preso una posizione decisa a favore del Remain – la linea adottata dal suo partito di riferimento – Jeremy Corbyn venne sottoposto il 27 giugno 2016 al voto per la mozione di sfiducia. A soli tre giorni dal risultato del referendum sulla Brexit il partito mise in discussione la guida del laburista a causa della “poca passione” con la quale si era approcciato alla campagna referendaria. Corbyn sostenne di non volersene andare perché avrebbe significato «tradire la fiducia degli elettori». Si difese ammettendo di essere un critico del sistema Europa (nella sua campagna aveva coinvolto anche l’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis, noto euroscettico), ma rivendicando parallelamente il suo sostegno al Remain grazie ai 60 comizi tenuti negli ultimi 60 giorni di campagna elettorale. Per l’Indipendent questa venne considerata la più grave crisi interna del Labour Party dal 1935, quando il leader pacifista George Lansbury fu estromesso dal partito a causa delle ondate di nazismi e fascismi in Europa.

 

Jeremy Corbyn durante uno dei comizi prima del referendum di giugno 2016

La conferma alla guida del partito

Nel settembre 2016 Corbyn venne confermato come leader del Labour, ma non riuscì a liberarsi dalle accuse di timidezza nei confronti della permanenza del Regno Unito nell’Ue. Nello stesso periodo suggerì al governo del Regno Unito di dimenticare le norme dell’Unione europea in merito agli aiuti di Stato, sostenendo che queste leggi non sarebbero più state necessarie una volta usciti dal mercato unico.

La spaccatura del Labour Party

Nei mesi successivi si consolidò questa spaccatura all’interno del partito. Da un lato la corrente di “destra” dei laburisti, formata soprattutto dai “blairiani” – i nostalgici dell’ex leader Tony Blair – favorevoli a contrastare l’uscita dall’Ue in qualsiasi modo, anche ricorrendo a un secondo referendum. Dall’altro l’ala più “di sinistra” di Jeremy Corbyn, che a partire dal 2017 adottò la linea della Soft Brexit puntando su gestione dell’immigrazione equilibrata, mantenimento di una stretta relazione con l’Ue, protezione della sicurezza nazionale (tramite la capacità di punire i crimini oltre confine), inclusione di tutte le regioni del Regno Unito nelle trattative, mantenimento dei diritti dei lavoratori e l’accesso al mercato unico.

La confusione e l’immobilità di Corbyn

 

In un’intervista rilasciata a SkyNews domenica 18 novembre Jeremy Corbyn, incalzato dalla giornalista che voleva sapere le sue opinioni personali in merito al Leave e al Remain, ha detto che a un secondo referendum non saprebbe cosa votare. L’incertezza del leader laburista è stata immediatamente presa di mira dagli avversari interni al partito, come indice della sua debolezza politica. Un’ambiguità che si spiega con la volontà di non peggiorare ulteriormente la situazione del partito. Alcuni esponenti vicini a Corbyn infatti temono che appoggiare apertamente un secondo referendum, promuovendo il Remain, potrebbe danneggiare la visibilità del partito proprio in quei seggi in cui un elettore laburista su tre aveva votato per lasciare l’Ue.

La strada verso l’apertura al referendum bis

Theresa May e Jeremy Corbyn insieme

Nel febbraio 2019 Corbyn ha iniziato ad aprirsi a un secondo referendum, sostenendo di non ritenere Theresa May capace di arrivare a un nuovo accordo con l’Unione europea e di voler scongiurare l’ipotesi del No Deal. Secondo alcuni analisti si è trattato di una mossa politica per evitare che altri laburisti confluissero nel neo-partito fondato da otto parlamentari che si erano distaccati dal Labour.

Alice Scaglioni

Ho frequentato il Master di Giornalismo IULM. Mi occupo principalmente di economia, tecnologia ed esteri. Scrivo per il Corriere della Sera, redazione Economia, PrimaOnline e D la Repubblica, nella sezione DYoung. Fan di Twitter, dove condivido tutto quello che scrivo (@alliscaglioni)

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