Dove una condanna a morte viene emessa in due minuti

«Se mi rispedite in Messico, mi uccideranno», aveva detto al giudice che doveva decidere se concedergli asilo negli Stati Uniti. Ma Costantino Morales, ex agente di polizia messicano scappato nel 2010 a Des Moines, in Iowa, per sfuggire al più potente cartello della droga della sua città, Huehuetan, non aveva convinto Jack L. Anderson, del tribunale per l’immigrazione di Omaha, nel Nebraska. Morales era tornato nel settembre 2014 nello stato di Guerrero, il più violento del Messico: così pericoloso che il governo statunitense proibisce ai suoi funzionari di mettervi piede. Sei mesi e 29 giorni dopo, i narcotrafficanti dai quali era scappato lo hanno ucciso a colpi di pistola.

Il videomessaggio di Costantino Morales dopo la decisione del tribunale per l’immigrazione di Omaha (video della trasmissione della Hbo Last Week Tonight, che ha raccontato il caso nella puntata del 1 aprile 2018).

Ogni anno, centinaia di migliaia di persone passano per aule come quella in cui il giudice Anderson ha respinto la richiesta di asilo di Costantino Morales: le immigration courts, tribunali con il compito di stabilire se un immigrato può restare negli Stati Uniti o meno. Luoghi in cui può capitare di essere espulsi dal Paese dopo un’udienza di due minuti, o di vedere un bambino costretto a difendersi da solo.

Le persone che attendono udienza sono 684.583: cifra più che triplicata rispetto ai 186.108 di dieci anni fa. L’aumento degli immigrati – in particolare dall’America Centrale – non è stato accompagnato da quello dei giudici. In tutto il Paese, ce ne sono circa 300, distribuiti in 58 tribunali, concentrati soprattutto nel Sud e nel Nord-Est. Il rapporto tra persone che aspettano un’udienza e giudici è di circa 2.100 a 1. I tempi di attesa, di conseguenza, si sono dilatati: un anno e mezzo in media a Miami, quattro ad Atlanta, cinque a Chicago. Un problema soprattutto per i richiedenti asilo, e non solo perché molti devono attendere l’udienza in carcere: le prove che intendono portare a loro sostegno rischiano di andare distrutte, i loro testimoni possono nel frattempo scomparire o morire.

I tempi di attesa dei tribunali per l’immigrazione di alcune città americane (Nbc).

I problemi non finiscono quando, finalmente, si arriva davanti a un giudice. «La gente resterebbe incredula se vedesse cosa viene spacciato per “giusto processo” nei tribunali per l’immigrazione», ha dichiarato alla Nbc Paul Schmidt, ex immigration judge della corte di Arlington, in Virginia. Si riferiva a casi come quello di Elena – nome fittizio indicato dal New Yorker, che ha raccontato la sua storia –, una donna honduregna emigrata negli Usa nel 2012. L’MS-13, organizzazione criminale attiva soprattutto in America Centrale, aveva ucciso due suoi fratelli – uno in quanto omosessuale, l’altro per avere rifiutato di unirsi all’associazione – e aveva sparato a sua sorella, colpevole di non avere ceduto alle avances di un gangster che l’aveva già stuprata e messa incinta. Elena stessa aveva respinto uno dei criminali, che aveva per questo sparato contro la sua casa. Era allora scappata in Texas, dove si era consegnata spontaneamente a un agente del Border Patrol, il corpo di polizia che sorveglia il confine tra Stati Uniti e Messico. Secondo il Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti, non aveva diritto all’asilo, perché non poteva provare «un timore fondato» per la sua incolumità.

L’audio dell’udienza di Elena presso il tribunale per l’immigrazione di San Antonio (video della trasmissione della Hbo Last Week Tonight, che ha tagliato soltanto le traduzioni dell’interprete).

Elena ha fatto ricorso e ha ottenuto un’udienza nel tribunale per l’immigrazione di San Antonio. Il giudice John D. Carte, dopo averle chiesto di confermare la sua versione dei fatti, le ha posto un’unica domanda: «Si è trasferita in un’altra città dell’Honduras prima di venire negli Stati Uniti?». A risposta negativa, ha deciso per l’espulsione. L’udienza, traduzioni dell’interprete incluse, è durata 103 secondi. Tornata in Honduras, Elena è stata aggredita e torturata dall’uomo che aveva respinto. Soltanto dopo la sua seconda fuga un giudice ha ritenuto «fondato» il suo timore, anche se, a causa della precedente espulsione, non ha ottenuto l’asilo. Dana Leigh Marks, presidente emerito dell’Associazione nazionale dei giudici per l’immigrazione, ha sintetizzato: «Giudichiamo casi di pena di morte in un ambiente che sembra quello in cui si valutano le violazioni del codice stradale».

«Giudichiamo casi di pena di morte in un ambiente che sembra quello in cui si valutano le violazioni del codice stradale»

– Dana Leigh Marks, presidente emerito dell’Associazione nazionale dei giudici per l’immigrazione

Oltre all’inefficienza e all’approssimazione, esistono anche problemi legati all’ordinamento della giustizia statunitense. Le immigration courts, pur presentando molti tratti in comune con i tribunali penali – ci si finisce dopo un arresto e la controparte è il governo –, sono infatti tribunali civili. La prima conseguenza è che non vale l’ultimo passaggio del «Miranda warning», la formula che i poliziotti americani devono recitare al momento dell’arresto: «Ha diritto a un avvocato durante l’interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d’ufficio». Chi non può pagare un legale, dunque, è costretto a rappresentarsi da solo. La University of Pennsylvania Law Review, la rivista di legge più antica d’America, ha calcolato nel dicembre 2015 che soltanto il 37% degli immigrati si presenta nelle immigration courts con un avvocato.

La legge non prevede nemmeno trattamenti speciali per i minori. «Ci sono bambini dai 2 ai 17 anni che si presentano in tribunale da soli», ha raccontato Matt Adams, del Progetto per i diritti degli immigrati del Nord-Ovest, a Kiro-7, emittente locale di Seattle. «Se ne stanno seduti lì senza avere la minima idea di ciò che sta succedendo». Quali possano essere i risultati emerge da una serie di video realizzati da Amy Maldonado, avvocato che si occupa di immigrazione.

 

 

Un rapporto della Reuters dello scorso anno dimostra poi che le probabilità di vedere accolta la propria richiesta dipendono in larga parte dalla corte in cui si tiene l’udienza. A San Francisco, per esempio, viene espulso solo il 36% degli immigrati. A New York, si scende addirittura al 24%. Al contrario, a Charlotte, in North Carolina, l’84% delle richieste di asilo viene respinto. Cifra che ad Atlanta, in Georgia, sale all’89%. Le prime sette corti per percentuale di espulsioni si trovano in stati che hanno votato per Donald Trump nelle presidenziali del 2016 (Florida, Texas, Georgia, Missouri, North Carolina). Le ultime tre, in stati che hanno scelto Hillary Clinton (Virginia, California, Massachusetts).

Le percentuali di sentenze favorevoli agli immigrati in alcune città statunitensi (Reuters).

Non solo: sempre la Reuters ha verificato che le possibilità di ottenere un verdetto favorevole variano in modo significativo anche all’interno dello stesso tribunale, a seconda del giudice. Nella corte di New York, si va dal 7% di espulsioni di Olivia Cassin al 64,1% di Alan Vomacka. A Los Angeles, dal 22,7% di William David Neumeister al 74,1% di Tara Naselow-Nahas. Il giudice del caso Morales decide a sfavore dei richiedenti asilo nell’84,1% dei casi. Il primato di espulsioni spetta a Rex Ford di Pompano Beach, in Florida, con il 97,7%.

Le immigration courts, inoltre, non rientrano nella sfera del potere giudiziario, ma in quella del potere esecutivo. Dipendono cioè dal Dipartimento di Giustizia, che fa capo al Procuratore generale, Jeff Sessions. La loro gestione, dunque, può variare a seconda dell’orientamento politico del governo federale. Sessions ha chiarito il suo in un intervento a Nogales, la cittadina dell’Arizona in cui Costantino Morales era entrato negli Usa: «Voglio dire a tutti coloro che continuano a vedere persone che entrano illegalmente e impropriamente in questo paese che questa è una nuova era: l’era di Trump». In un’altra occasione, il Procuratore generale ha promesso l’assunzione di nuovi giudici per ridurre i tempi di attesa, e soprattutto analisi più approfondite per le «richieste di asilo farlocche».

Il Procuratore generale ha anche la facoltà di rivedere personalmente le sentenze. Nel marzo 2017, ha deciso di riesaminare il caso di una donna di El Salvador, vittima di violenza domestica da parte dell’ex marito, a cui nel 2016 era stato riconosciuto il diritto di restare negli Stati Uniti. Sessions potrebbe rovesciare la decisione e, soprattutto, creare un precedente che rischierebbe di precludere l’asilo, in futuro, a chi scappa da abusi familiari.

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