L’euro vent’anni dopo: il destino della moneta unica con lo spettro Italexit

«Quella dell’euro è una sfida vinta, ma anche una sfida che comincia. È un’era di nuove opportunità, non l’inizio dell’età dell’oro». Il Ministro del Tesoro e del Bilancio italiano Carlo Azeglio Ciampi inaugurava così il 1999 come anno di battesimo della valuta che nel 2002 si sarebbe fatta moneta e banconota per undici paesi europei. Alla soglia del nuovo millennio, a Palazzo Chigi sedeva il Presidente del Consiglio Massimo D’Alema, che salutava la nascita dell’euro come «fatto storico». Evento tale anche per gli euroscettici ante litteram, come il premio Nobel per l’Economia Merton Miller che al Corriere della Sera leggeva così l’avvento della moneta europea: «L’euro non è la panacea di tutti i mali.  Se non verrà sorretto dalle necessarie riforme rischierà di diventare un colosso dai piedi di argilla». Vent’anni dopo, sostenitori e detrattori dibattono ancora su una scelta che ha avvicinato le economie, ma diviso i governi.

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Gli Undici del ’99

Insieme all’Italia componevano la squadra degli Undici che aderirono per primi al progetto della moneta unica Francia, Germania, Spagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Austria, Portogallo, Irlanda e Finlandia. Tra i criteri (più o meno) stringenti per l’ingresso nella moneta unica, i più noti erano il rapporto deficit/Pil e il rapporto debito pubblico/Pil: dati che ciascun paese candidato all’euro avrebbe dovuto portare rispettivamente pari o al di sotto del 3% e sotto il 60%. Roma non aveva però tutte le carte in regola: l’odierno macigno, ovvero il secondo debito pubblico in Europa, già allora penalizzava il nostro Paese che nel 1998 registrava un rapporto percentuale debito/Pil del 114,9%. Diversa la questione del rapporto deficit/Pil: i governi di centrosinistra, Prodi prima e D’Alema poi, si impegnarono a far calare questo valore al di sotto del 3% come stabilito tra i parametri di Maastricht permettendo così al Paese l’ingresso nell’euro.


Euro tra crisi e salvataggi

In vent’anni l’euro ha attraversato la sua prima recessione: nel 2008 anche l’economia del Vecchio Continente subì gli effetti del crack della Lehman Brothers. Nel 2009 la Grecia fu il primo degli Stati a entrare in crisi avviando così i piani di salvataggio; l’anno successivo  toccò all’Irlanda che sarebbe uscita dal programma di aiuti nel 2013 dopo aver ricevuto 67,5 miliardi di euro di prestiti; nel 2011 il Portogallo fu il terzo Paese a chiedere il soccorso europeo: il prestito complessivo per Lisbona raggiunse i 78 miliardi. Infine nel novembre di quell’anno il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi si dimise a seguito della crisi dello spread tra Btp Italia e Bund tedeschi, il termometro dei nostri titoli di stato che aveva raggiunto i 575 punti base allarmando i mercati e le cancellerie europee.

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Euro sì, euro no

Secondo un recente sondaggio di Eurobarometro gli italiani che nel 2018 ritenevano l’euro positivo per il proprio Paese erano il 57% (12 punti in più rispetto all’anno precedente), mentre i critici sono scesi dal 40 al 30%. Eppure l’anno appena concluso ha visto vincere le forze più euroscettiche del panorama politico nazionale: tra le battaglie storiche del Movimento Cinque Stelle compare anche la proposta di un referendum sulla moneta unica («Voterei per l’uscita», diceva l’attuale vicepremier Luigi Di Maio nel 2017); il Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha indossato per anni magliette e felpe targate “Basta euro”. Il primo governo “populista” della Repubblica ha però sospeso la questione dal dibattito nazionale.

 

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Per quanto in ripresa, la soddisfazione degli italiani riguardo all’euro va comunque confrontata con la percezione dei cittadini rispetto all’esperienza dell’Unione Europea. Una recente ricerca ci confina nel gruppo di coda (in alcuni casi in ultima posizione), tra i meno soddisfatti: nell’aprile 2018 soltanto il 42% degli italiani riteneva un fatto positivo il legame con l’Ue (solo in Repubblica Ceca erano ancor meno felice di farne parte). Ancor più eloquente è il dato sull’indicazione di voto in un referendum su un’ipotetica Italexit: come si legge nel grafico la maggioranza relativa a favore del remain (44%) è la più bassa di tutte tra gli ex Ventotto. I sostenitori del leave (24%) e gli indecisi (32%) valgono però come monito sulle possibili conseguenze: fuori dall’Unione significa fuori dall’euro.

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Oggi come allora, lo scetticismo sull’euro non riguarda soltanto i cittadini. Nel 1999 l’allora Presidente di RCS Cesare Romiti diceva riguardo alla moneta unica che «la qualità di vita dei cittadini non è migliorata, anzi è peggiorata». Disoccupazione e criminalità erano i temi che preoccupavano l’ex amministratore delegato della Fiat. «La gente è preoccupata perché vede la qualità della vita minacciata. Penso all’immigrazione […] La preoccupazione è così alta da apparire come xenofobia».

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Euro e debito pubblico

Se c’è però un ambito nel quale l’euro ha migliorato le condizioni dei nostri conti macroeconomici questo riguarda il debito pubblico. Il secondo più grande in Europa (dopo la Grecia) e tra i principali fattori che frenano crescita a causa della spesa per gli interessi da pagare ai creditori (famiglie, banche, fondi di investimento). Quest’ultima vale il 9% della spesa pubblica complessiva, ma negli ultimi anni della lira la medesima “voce” superava il 20%.

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Se la percezione diffusa tra gli italani è quella di averci perso con l’adozione della moneta unica, la storia degli ultimi anni ha però dimostrato che anche l’Italia può contare nel condominio europeo. Quel “whatever it takes” di Mario Draghi, pronunciato nel luglio del 2012 dal Presidente della Banca Centrale Europea, fu il primo atto del Quantitative easing, l’acquisto dei titoli di Stato voluto dall’istituto di Francoforte. La storica decisione dell’ex numero uno di Bankitalia ha favorito anche la crescita del Pil del nostro Paese. Che ora, proprio quando la politica monetaria della Bce è giunta al termine, potrebbe entrare in una nuova fase recessiva.

 

 

 

 

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