Buffa racconta Buffa

«Sono un malato di basket, ma non ho mai cercato un antidoto». È così che ama definirsi Federico Buffa, 59 anni e l’aria ancora da ragazzo.

Una delle voci più amate del giornalismo sportivo in Italia e volto di Sky Sport, Buffa ha portato nel nostro Paese un tipo di narrazione che prima non esisteva. «Qui ci viene in soccorso il più grande scrittore del ‘900, Jorge Luis Borges, il quale sosteneva che gli americani non avevano una loro epica. Così hanno inventato un altro concetto, un’epica contemporanea, che è una metafora perfetta dell’esistenza».

Al momento è impegnato in teatro con lo spettacolo Il rigore che non c’era, che parte da una massima punizione del 1958 concessa alla squadra argentina del Deportivo Belgrano, e arriva fino al mito del calciatore nordirlandese George Best.

Gli aedi intrattenevano cantando le gesta di eroi omerici, da Achille a Ettore, da Agamennone a Ulisse. I rapsodi cucivano quei canti. Buffa ha fatto lo stesso a distanza di oltre 2.800 anni. Ha raccontato le imprese di uomini che hanno fatto la storia, da Ali a Jordan, da Owens a Scirea.

 

Quanto conta la narrazione nella valutazione sportiva?

C’è un passaggio bellissimo nel libro Homo Sapiens di Yuval Noah Harari. Il nostro antenato  non era ancora in grado di parlare ma distingueva le percussioni. Quando poi iniziò a comprendere di avere la capacità di poter immaginare e di poter esprimersi vocalmente, inventò la seconda forma di comunicazione: le storie. Le narrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno, perché fanno parte del bagaglio di noi esseri umani. E non possiamo farne a meno.

 

Nella tua esperienza quanto è importante il talento di saper raccontare le storie?

Non pensavo di avere tutte queste doti. Mi immaginavo in Giappone a insegnare italiano e a dire “Marcello Mastroianni”. Ma mia sorella mi racconta che da piccolo, quando eravamo in macchina con tutta la famiglia – a bordo di una Fiat 1300 – intrattenevo tutti, facendo le radiocronache del viaggio e raccontando quello che mi sembrava stesse succedendo intorno. Ed è un po’ quello che continuo a fare. Mi parlo, mi racconto quello che c’è. È una sorta di sistema mentale che tende a farmi ripetere verbalmente le cose.

 

Gli antichi cantori Greci avevano formule fisse per ricordare più facilmente. Tu, invece, in che modo ti orienti?

Io ho un’immagine fisica della memoria. Per me è come se fosse un muscolo, un quadricipite o un bicipite forse, che bisogna tenere in allenamento irrorandolo di sangue e ossigeno. Anni fa ero al Festival del cortometraggio di Locarno e chiesi a Chuck Palahniuk, scrittore americano e autore di Fight Club, come facesse a ricordare. A quel punto si sbottonò la camicia sul polso e la tirò su mostrando un avambraccio grande quanto la mia coscia quando giocavo a calcio. Quando c’era qualcosa che gli piaceva se la scriveva lì con la penna per poi trascriverla una volta tornato a casa. Io faccio lo stesso.

 

Si tratta degli aneddoti che arricchiscono le tue storie?

Beh, non so quando avrò bisogno di quella cosa, ma  nel caso in cui mi servisse so dove trovarla. Mi capita soprattutto quando viaggio e ho la possibilità di vedere film che non arriveranno mai in Italia, come quelli indiani. Per un lavoro recente che ho fatto per Sky, ad esempio, il finale è tratto da un film Bollywoodiano. Il protagonista a un certo punto dice: «Noi veniamo al mondo con piccoli pugni serrati e ce ne andiamo con le mani aperte». Questa cosa mi ha colpito molto. Gli indiani hanno questa circolarità della vita che mi stupisce sempre, perché vedono cose che noi non siamo in grado di concepire.

 

I tuoi racconti parlano anche di te, della tua storia e del tuo legame viscerale con l’America.

Era l’autunno del 1978 e come premio di maturità mio padre mi regalò una sessione alla UCLA. Io scelsi sociologia perché avevo velleità di studiare quella disciplina a Trento. Venivo da una Milano molto politicizzata. Vedere giocatori di quel livello allenarsi su quei campi fu per me di grande impatto. Quando tornai  da lì pensai che Superbasket, neonato settimanale interamente dedicato alla pallacanestro, potesse concedermi una possibilità. Entrai nella redazione in piazza Duca d’Aosta, di cui Aldo Giordani, telecronista della Rai, era il guru. Gli proposi il pezzo sulla UCLA. Lui lo lesse, non disse nulla. Fui pagato 1.000 lire. Quel trafiletto pubblicato su quel numero è stato l’unico figlio che abbia mai avuto nella vita.

 

Se non fossi mai partito per l’America, chi saresti oggi?

La realtà controfattuale, l’effetto sliding doors. Il “cosa sarebbe successo se?”. Forse se non fossi mai andato negli USA non avrei visto ciò che continuo a vedere. Lì vedi il mondo come sarà. Come consuetudine al mattino il primo giornale che leggo è il Guardian. Gli anglosassoni hanno come etica di base il miglior modo di fare giornalismo al mondo. E gli americani possono considerarsi cugini degli inglesi. Ricordo un episodio in particolare. Steve Bannon era in Italia. Era stato realizzato un documentario su di lui, The Brink, che lo seguiva mentre decideva le basi della creazione dell’internazionale sovranista. Lo stava intervistando un giornalista del Guardian alla presenza di Giorgia Meloni. Non ho mai sentito da un italiano porre quelle domande lì. Ogni cosa che diceva era basata su una quote, ovvero una citazione.

 

Cos’è per te il giornalismo?

Per me è quel giornalista del Guardian. Cioè potersi permettere per credibilità, forza della testata e documentazione della domanda di poter parlare a un uomo come Steve Bannon, davanti a un altro politico italiano, su degli argomenti come quelli e avere un’opinione documentata. Io sono per questo tipo di giornalismo. Per gli inglesi non è esclusivamente un fatto informativo. Non hanno alcun problema a dichiarare che l’obiettività non esiste: nessuno è obiettivo al mondo, per il solo fatto di esprimere un concetto.

 

Per l’ultima partita di Jordan che hai raccontato, come è stato?

È diversa da altre narrazioni che ho fatto, perché  in quella circostanza raccontavo una partita che avevo visto a bordo campo e di cui sapevo che si sarebbe parlato per 50 anni. I Bulls erano sotto di 3 punti a 40 secondi dalla fine della partita, ma da quel momento nessuno di loro avrà più avuto  la palla eccetto Michael Jordan, che ha vinto segnando due canestri e rubando la palla agli altri. In pratica giocando da solo. È un po’ come nel film Lucy di Luc Besson in cui ci si chiede che cosa succederebbe se le persone utilizzassero tutte le facoltà mentali di cui dispongono. Si calcola mediamente che utilizziamo circa il 15%, che è francamente poco, ma più che sufficiente per farci vivere come vogliamo. Io ho la sensazione che Michael Jordan quel giorno lì sia arrivato al 20%, cioè abbia immaginato un mondo che non era ancora successo ma che lui si stava creando nella testa, facendolo accadere. Per cui quando ho dovuto raccontare quella partita, non ho avuto bisogno neppure del bicipite. Era un cassetto della mia memoria facilmente raggiungibile.

 

Quale è stato, invece, il lavoro più difficile che hai fatto?

Sicuramente il progetto su Muhammad Ali, che però è stato anche il più lusinghiero. Per quella storia ci sono 14 testi americani da cui derivano 500 referenze. Sono andato in un agriturismo in Franciacorta e sono rimasto lì tre giorni, uscendo solo per mangiare. Era una cosa troppo grande e troppo difficile. Stiamo parlando del più grande sportivo del ‘900 e soprattutto di un uomo pubblico.

 

Quanto tempo dedichi allo studio nel corso della tua giornata?

Quando commentavo l’NBA trascorrevo circa tre ore al giorno a leggere. La mia vita era stagionale, andava da Halloween al 15 di giugno. Adesso che non devo fare un commento di un campionato è molto più occasionale. Scelgo, però, sempre un periodo dell’anno, specialmente d’estate in cui leggo per un mese sette o otto ore al giorno e alterno libri che mi interessano a libri che penso mi saranno utili a quello che devo dire. La lettura per me è possibile solo sulla carta e devo poter glossare quello che leggo, perché se scrivo, quel concetto mi resta impresso, come nella memoria muscolare. Ho ereditato questa passione da mio padre, che aveva una libreria da 7.000 volumi. Come ex libris aveva la frase di un filosofo francese, un omaggio al dubbio. È forse questo il suo lascito più importante. Il dubbio è fondamentale per l’essere umano perché  non c’è niente di peggio di un’idea se ne possiedi una sola.

 

Adesso sei impegnato in teatro con lo spettacolo Il rigore che non c’era. Hai esordito sui palcoscenici nel  2015 con Le Olimpiadi del ‘36. Quanto è differente stare su un palco piuttosto che davanti a una telecamera?

La televisione è un medium freddo, noioso e faticosissimo perché basta un rumore che entra in campo e devi ripetere la scena. Sei distratto perché c’è tanta gente che si muove attorno a te. Ero a Roma e dovevamo girare una scena per la prima puntata su Muhammad Ali, che nel  documentario occupa un minuto e 12 secondi. Per girarla abbiamo impiegato cinque ore. Avrei ripetuto per più di due volte il mio spettacolo. In teatro è diverso, devi modificare innanzitutto il modo di parlare. Cambia proprio la conformazione della parola  e come la pronunci. Non cade soltanto la quarta parete tra te e il pubblico. Cade tutto.

 

Sei stato e sei tante cose. Ma dovendo tirare le somme, tra tutte le esperienze che hai avuto, quale è stata la più coinvolgente?

Sono stato un modestissimo avvocato, poi ho fatto qualcosa che possa sembrare un giornalista, e infine qualcosa che possa avvicinarsi a un narratore. E adesso sto provando a fare un mestiere  molto complicato, quello dell’attore. Ma bisogna essere onesti. Improvvisare alla mia età è impossibile. Si può al massimo provare a stare su un palco, prendendo la luce giusta. Però posso dire che recitare mi allunga la vita. Da ragazzo avevo stilato una lista di dieci cose che avrei voluto fare. Ho conservato quel quaderno e i primi nove punti li avevo completati. Mancava solo l’ultimo: salire su un palco.

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