Dalla “pin-up” alla “fashion doll”: il Mudec di Milano celebra i 56 anni di Barbie

Barbie

 

Di Francesca Del Vecchio

Who is Barbie? Chi è la bambola bionda – alta meno di 30 cm – che ha venduto 10 miliardi di riproduzioni nel mondo dalla sua prima apparizione, nel 1959? Il Mudec – Museo delle Culture di Milano – mette in mostra la storia dell’icona più discussa degli ultimi cinquant’anni:  Barbie. The Icon. Più di 400 esemplari e cinque sale tematiche raccontano il mezzo secolo di vita di Barbie: i sette pezzi simbolo, dalla pin-up anni ’50 alla versione fashion del 2015. L’esposizione viene introdotta da una linea del tempo illustrata. Su di essa è tracciato un percorso binario che associa all’anno di uscita di ciascuna Barbie, un evento storico importante: il primo sbarco sulla luna, l’inizio dell’era digitale. Fino all’ultima tappa, la sfilata Moschino – per la settimana della moda milanese 2015 – interamente ispirata alla bambola Mattel.

Quella con Moschino non è l’unica liason tra Barbie e la moda: una delle sale espone gli esemplari – in edizioni limitate – che hanno vestito capi firmati da grandi marchi, da Fendi a Dior, dagli abiti da sposa di Lorenzo Riva alle scarpe di Christian Laboutin. Indubbiamente, la vicinanza tra Barbie e il mondo della moda ha fornito delle intuizioni, sia per il suo stile, sia per le trasformazioni fisiche che hanno coinvolto ogni parte del suo corpo, plasmandolo alle esigenze della contemporaneità. Fin dagli anni ’60 è stata musa di noti stilisti, rappresentando quel modello di donna esteticamente perfetta contro cui si sono scagliate le associazioni femministe. Le accuse mosse al personaggio, posto a modello di cinque generazioni di bambine, sono sempre state di natura concettuale: secondo alcuni, Barbie rappresentava lo stereotipo di donna asservita alle regole dell’estetica e della bellezza, votata all’effimero e alla vanità. E come dar loro torto se si pensa a quante ragazzine hanno desiderato entrare nel corpo filiforme di Barbie,  nella sua fisicità da top model che non contempla né l’incedere dell’età né le oscillazioni di peso. Non a caso è il delicato tema che da diversi anni coinvolge la filiera della moda, criticata da medici e nutrizionisti per veicolare modelli femminili troppo lontani dal concetto comune di salute: indossatrici anoressiche con visi scavati dall’assenza di cibo.

Ma Barbie ha puntato a essere una donna dalle mille varietà professionali.  Forte del motto “I Can Be”, ha esercitato circa 150 professioni diverse. Dopo il debutto da modella, nel ’65 si propone astronauta, ispirandosi alla russa Valentina Tereshkova, prima donna a viaggiare nello spazio. Nell’89 – a un anno dallo scoppio della Guerra del Golfo – si arruola nelle forze armate e nel 1998 si candida alla Presidenza degli Stati Uniti, come Geraldine Ferraro nell’84. È stata poi infermiera, ambasciatrice Unicef, giocatrice di basket, maestra e ballerina. Ciascuno di questi mestieri ha alimentato sogni e chimere nell’immaginario di ogni bambina. Bambole dalle tute spaziali o con borse da medico; manichini con lavagna e gessetto o in calzamaglia e tutù riempiono, dunque, un’altra delle sale del Museo: la “Barbie Carrers”.

L’intuizione dei suoi creatori – Ruth Handler e Jack Ryan – fu proprio immaginarla duttile alla società.  Per questo, oltre che donna in carriera, Barbie è stata anche semplicemente donna.  Non rivolgere l’attenzione al ruolo femminile all’interno della famiglia sarebbe stato come porgere il fianco a quella parte di società che guarda con ammirazione alla figura della donna devota al focolare domestico. Le critiche sarebbero state feroci, Barbie non poteva non rappresentare anche la fetta di “pubblico” composta da mamme e mogli. Così, pur avendo un fidanzato – Ken – dal 1963 senza essersi mai sposata, Barbie ha raccolto accanto a sé una numerosa famiglia composta da sorelline, cuginetti e animali domestici. Non solo, la sua casa era degna delle migliori riviste di arredamento: mobili laccati ed elettrodomestici ultramoderni. Così, anche il curatore della mostra – Massimiliano Capella – ha ritenuto importante dedicare a “Barbie Family” una delle sale dell’esposizione. Il risultato è un quadretto di famiglia avvolto dal nero delle pareti e il fucsia dei complementi d’arredo – pochi – posti nella sala: un letto di dimensioni naturali e una consolle de toilette.

Non è tutto. Se la sua poliedricità l’ha resa così resistente al tempo e ai cambiamenti della società, le ha anche offerto la possibilità di rappresentare la multietnicità. Nella sala “Dolls of the World” il ventaglio offerto è notevole: 50 bambole da tutto il mondo che indossano i propri costumi tipici. È questa la sala giusta anche per insegnare qualcosa:  all’ingresso di questo spazio è posta una campana sonora che – a richiesta di grandi e piccini e con un linguaggio comprensibile a entrambi – racconta le specificità di ciascun paese, con la voce delle protagoniste.

Il percorso tra i mille volti di Barbie – all’anagrafe Mattel Barbara Milicent Roberts – termina con la sala “Regina, diva e celebrity”. Un numero imprecisato di cilindri di vetro trasparenti riempiono una stanza vuota, dalle pareti plumbee. L’illuminazione enfatizza lo scintillio di lustrini e cristalli: Barbie è Audrey Hepbourne e Grace Kelly, la Regina Cleopatra ed Elisabetta I d’Inghilterra. Questa, delle cinque, è sicuramente la sezione che più si avvicina al concetto di icona: una sfilata di riproduzioni – più che fedeli – di grandi donne della storia e dello spettacolo.

Nel suo complesso la mostra racconta di come Barbie si sia fatta interprete delle trasformazioni estetiche e culturali della società, rafforzando la sua identità di “specchio” dell’immaginario globale. L’intera esposizione offre al visitatore la percezione dei cambiamenti socio-economici, nonché culturali attraverso una lettura pensata sia per i piccoli che per i loro accompagnatori.

Resta da capire il nesso fra le reginette di bellezza e un museo votato all’etnografia. Forse una riflessione antropologica sulla società dell’apparenza negli anni del boom economico?

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